Defiance - i giorni del coraggio

31/1/2009. Regista: Edward Zwick.. Sceneggiatura: Clayton Frohman, Edward Zwick. Interpreti: Daniel Craig, Liev Schreiber, Jamie Bell, Alexa Davalos, Mia Wasikowska. 127 min. USA. 2008. Giovani-adulti. (VSD)

Il regista di Blood Diamond e Glory-Uomini di gloria racconta la storia reale di tre fratelli ebrei, in fuga dalla Polonia occupata da Hitler, che s’inoltrano nei boschi della Bielorussia, dove si nascondono, con molti altri ebrei, scampati ai crimini dei nazisti e alle denunce dei collaborazionisti. Qui si narrano le loro peripezie, marcate dalla tensione e da un complesso rapporto con i partigiani russi.


Il film di intenso gusto classico, gode di eccellenti recitazioni. Eccelle quella di Daniel (Bond) Craig, capace di sostenere molto bene il notevole peso drammatico del soggetto, tratto dal libro della storica ebrea Nechama Tec.

Si tratta di una storia di dilemmi, che descrivono molto bene i diversi atteggiamenti davanti alle situazioni limite, da cui emerge il meglio ed il peggio delle persone che le attraversano. Nel film si riduce intenzionalmente il peso della componente puramente bellica -poche le scene di guerra- a beneficio dei rapporti tra i personaggi, con dialoghi davvero ben scritti. La fotografia, la colonna sonora e il montaggio sono curati da tre fuoriclasse: Eduardo Serra (La ragazza con l’orecchino di perla), James Newton Howard (Il cavaliere oscuro) e Steven Rosenblum (Braveheart). Si tratta di un film con una tematica assai nota, che può mettere lo spettatore sulle difensive, ma che sa anche sorprendere, narrando qualcosa di insolito. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani-adulti. Contenuti: V, S, D (ACEPRENSA)

Operazione Valchiria

31/1/2009. Regista: Bryan Singer. Sceneggiatura: Christopher McQuarrie, Nathan Alexander. Interpreti: Tom Cruise, Kenneth Branagh, Bill Nighy, Tom Wilkinson, Carice Van Houten. 115 min. USA, Germania. 2008. Giovani. (V)

Questo film racconta l’attentato più ambizioso dei 15 tentativi falliti di assassinare Hitler, tra i quali quelli riproposti da film, come Rommel, la volpe del deserto (1951) o La notte dei generali (1967). L'Operazione Valchiria prende le sue mosse nel 1943, in Nord Africa. Da qui si va profilando il destino del colonnello Claus von Stauffenberg, militare aristocratico, patriota e cattolico, che già allora considerava Adolf Hitler come un cancro della Germania, un pazzo assassino. Di ritorno in Germania, Von Stauffenberg inizia ad organizzare una complotto, per assassinare il Führer ed attuare la segreta Operazione Valchiria, prevista dallo stesso Hitler, nell'eventualità della sua morte.



Forse per eccesso di fedeltà alla storia reale, il copione di Christopher McQuarrie e Nathan Alexander perde talvolta di intensità narrativa, drammatica e anche morale, così presenti -invece- all’inizio del film. Inoltre, si sente la mancanza di un'analisi più nitida dei motivi profonde -anche religiosi e familiari- dei cospiratori, suggeriti solo in modo frammentario. Comunque, la messa in scena di Bryan Singer non rivela la personalità e la scorrevolezza già dimostrata in altri film, come I soliti sospetti, X-Men o Superman returns.

In ogni caso, l’argomento rivela un forte interesse storico, drammatico ed etico. Inoltre, è narrato con chiarezza e senso dell’intrigo, con scene di grande impatto emotivo. Vi contribuiscono la magnifica ambientazione, la colonna sonora di John Ottman, le eccellenti recite di tutti gli attori, specialmente Tom Cruise, che offre un ennesimo saggio di grande professionalità. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.
Pubblico: Giovani. V (ACEPRENSA)

Revolutionary road

31/1/2009. Regista: Sam Mendes. Sceneggiatura: Justin Haythe. Interpreti: Leonardo Di Caprio, Kate Winslet, Kathy Bates, Kathryn Hahn, Michael Shannon. 119 min. USA. GB. 2008. Adulti. (XD)

Nel progetto di Revolutionary Road ci sono due elementi che non possono sorprendere nessuno. Da una parte, il fatto che il cinema -specialmente quello a caccia di Oscar- si sente attratto dall’opera di Richard Yates, noto scrittore statunitense della cosiddetta “epoca dell’ansia” ed alcolizzato, che ha descritto le miserie della società agiata degli States, negli anni cinquanta.


D’altra parte, era logico che l’autore di American Beauty fosse fortemente avvinto dal romanzo più famoso di Yates, Revolutionary Road, oscuro, oppressivo, quasi osceno dramma sulla disintegrazione di una giovane e apparentemente felice coppia. Per interpretare Frank e April Wheeler, Mendes si è valso di sua moglie, Kate Winslet, di nuovo assieme a Leonardo Di Caprio, dopo il successo di Titanic. Malgrado l'enfatica direzione degli attori (tipica di Mendes), i due -recitano benissimo- sono candidati a vincere un Oscar.

Molto fedele al romanzo, il copione spartisce equamente tra i coniugi lo spiccato desiderio di emergere, a differenza di Yates, che da più rilevanza al marito, che al contempo è il narratore della storia. Si può censurare il film -come il romanzo- che costruisce un mondo artificioso, poco credibile e asfissiante. La trama prende, a bersaglio preferito, una società che finisce per confondere la ricerca della felicità, con quella del benessere. Il dilemma proposto dal film è la scelta tra agi e ideali, anche se né il testo di Yates, né il film di Mendes danno una pista convincente, nell'individuare quali siano questi ideali capaci di riscattare la vita di tanti personaggi mediocri.

Revolutionary Road è un terribile e scomodo ritratto di alcuni soggetti, abituati ad abusare dei sentimenti e delle evasioni che vivono nella sfera del proprio soggettivismo. Sono quindi incapaci di trovare un accordo: quando cercano di camminare assieme, finiscono per inciampare e lacerarsi. Come in American Beauty, e in gran parte del cinema drammatico contemporaneo, affiora una diagnosi scoraggiante, priva di rimedio, tanto acuta e penosa quanto i litigi della coppia dei Wheleer.

Il film pareva destinato agli Oscar, ma si è dovuto accontentare della candidatura di Michael Shannon, a miglior attore secondario. Ana Sánchez de la Nieta. ACEPRENSA.

Pubblico: Adulti. Contenuti: X, D (ACEPRENSA)

Milk

31/1/2009. Regista: Gus Van Sant. Sceneggiatura: Dustin Lance Black. Interpreti: Sean Penn, Emile Hirsch, Josh Brolin, Diego Luna, James Franco. 128 min. USA. 2008. Adulti. (XD)

Anni settanta. Harvey Milk, grigio impiegato di una finanziaria di New York, conosce l'uomo della sua vita. Così appassionato è il rapporto, che lascia il lavoro per vivere apertamente la sua omosessualità. Trasloca a San Francisco, dove confluiscono molti gay. Milk prenderà coscienza dei problemi della città, più specificamente degli omosessuali. Fino al punto di lottare tenacemente, per essere eletto consigliere comunale.



Film basato su fatti accaduti, raccontati nel 1984 dal documentario vincitore di un Oscar The Times of Harvey Milk. L’idea è drammatizzare quei fatti in un prodotto militante, con il doppio e dichiarato fine di appoggiare i diritti degli omosessuali, spingendo verso un pubblico più vasto. Il film inizia con la notizia dell’assassinio di Milk e di George Moscone, sindaco di San Francisco, per descrivere -in flash-back- gli anni di attivismo politico del primo.

Già regista di titoli brillanti, come Da morire ed Elephant, G. Van Sant si concede un film in stile classico, formalmente nella linea di Will Hunting, genio ribelle, e Scoprendo Forrester, lontano dai minoritari film gay, come Mala Noche e Belli e dannati.

A un dato momento, Milk spiega che, quando si rivolge al pubblico eterosessuale, inizia scherzando proprio per rompere il giaccio. Si può dire che anche l’omosessuale Van Sant fa altrettanto: si schiera a favore di un trattamento estetico e narrativo, che non provochi rifiuto da parte dello spettatore; ma al contrario, lo possa conquistare alla causa.
Il tutto, secondo un'approssimazione didattica, dove ogni cosa si spiega in termini di lotta per i diritti civili. Ricorda Philadelphia, anche se i tempi sono cambiati e certi punti di vista si difendono oggi in modo assai più scoperto di allora.
Van Sant evita lo scontro frontale con quanti considerano immorale questo tipo di relazione -anche se un paio di volte sottolinea che “non c’è niente di male”- e si concentra sulle discriminazioni sul lavoro, per colpa dell’orientamento sessuale, cercando di proporre i diversi personaggi come tipi umani con cui si può simpatizzare, contando sulla recitazione degli attori, a partire da quella di Sean Penn. José María Aresté. ACEPRENSA.

Pubblico: Adulti. Contenuti: X, D (ACEPRENSA)

Sette anime

31/1/2009. Regista: Gabriele Muccino. Sceneggiatura: Grant Nieporte. Interpreti: Will Smith, Rosario Dawson, Woody Harrelson, Michael Ealy, Barry Pepper. 123 min. USA. 2008. Giovani-adulti. (X)

Due anni fa, l’attore Will Smith ed il regista italiano Gabriele Muccino (L’ultimo bacio) sono riusciti a commuovere il pubblico, con un emotivo dramma di ascesa personale. Inoltre, con La ricerca della felicità Smith ha avuto una seconda possibilità di competere per l’Oscar.



In Sette anime, il tandem Muccino-Smith ripete la formula con minor fortuna. Il film si ritrova in panne, appena la sua migliore arma fa cilecca. Muccino riesce sì, a mantenere l'aura di intrigo, per tutto il film, basandosi su di un montaggio frammentato dal responsabile di Crash, Hughes Wimborne. Le corrette recitazioni, un calcolato buon ritmo ed una solida produzione portano per mano lo spettatore, grato per quel che si narra nel film. Infatti, anche se non si capisce bene dove si vada a parare, la trama viene raccontata molto bene. Fin qui, perfetto.

Il problema emerge quando lo spettatore scopre che questo montaggio, di buon livello, questa produzione così precisa, questo cercare tenacemente l’empatia, sono al servizio di una storia tanto piena di buoni propositi, quanto altrettanto inverosimile, artificiale, semplicistica e moralmente confusionaria. Ana Sánchez de la Nieta. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani-adulti. Contenuti: X (ACEPRENSA)

Australia

17/1/2009. Regista: Baz Luhrmann. Sceneggiatura: Baz Luhrmann, Stuart Beattie, Ronald Harwood, Richard Flanagan. Interpreti: Nicole Kidman, Hugh Jackman, David Wenham, Bryan Brown, Bruce Spence. 165 min. USA, Australia. 2008. Giovani-adulti. (VS)

Un film “come quelli di una volta”. Di lunga durata, con trama “bigger than life”, in una cornice di proporzioni epiche, e che contiene una appassionata storia romantica. L’australiano Baz Luhrmann parcheggia le approssimazioni di tipo moderno della sua “trilogia del sipario rosso” (Ballroom-Gara di ballo, Romeo+Juliet, Moulin Rouge) e ci offre un canto d’amore al suo paese, di tono classicista e che ha come punti di riferimento Via col vento, La mia Africa, Titanic, e tutto il cinema di David Lean.



Sarah Ashley, aristocratica inglese, va in Australia per riunirsi con suo marito, che sta trattando la vendita di un ranch. Donna di carattere forte, ma la cui vita offre pochi incentivi, dovrà affrontare la sua inesperta vedovanza e l’avventura di condurre i suoi 1500 capi di bestiame a Darwin, per venderli all’esercito, bisognoso di forniture a causa della Seconda Guerra Mondiale. Sarà aiutata nell’impresa da Driver (il mandriano), rustico professionista con il quale scoccherà la scintilla dell’innamoramento.

Questa prima parte del film funziona molto bene, come un western ben oliato, con pennellate melodrammatiche e umoristiche: si profilano i personaggi; ci sono scene memorabili come quelle della carica della mandria; affronta la questione degli aborigeni, la loro spiritualità e la cosiddetta “generazione rubata”, il confino dei meticci per ordine dello Stato. Il finale di questa parte, il ballo e la proiezione in un cinema di Il mago di Oz –motivo ricorrente per parlare della nostalgia del focolare e dei sogni che si fanno realtà- è perfetto.

Poi, come spesso succede in questi film-fiume, cambia il ritmo. E Luhrmann lo fa in modo brusco. Si delineano allora conflitti nella coppia protagonista su come deve essere educato l’orfano Nullah, vicenda che si svolge sullo sfondo del poco conosciuto bombardamento giapponese di Darwin, paragonabile a quello sofferta dagli americani a Pearl Harbor. Anche se di nuovo la grandiosità che vediamo sullo schermo è mozzafiato, si perde qualche cosa nella logica narrativa e nell’evoluzione dei personaggi. C’è un enfasi eccessiva nei momenti culminanti, quelle delle vite a rischio o dei felici ricongiungimenti, malgrado l’intelligente utilizzo della colonna sonora di David Hirschfelder. Anche se ne risulta un film notevole e di sicuro successo, pesa troppo a Luhrmann la coscienza di stare manipolando qualcosa di molto grande, che deve trasmettere emozioni autentiche, e così alla fine tendono a risultare forzate. José María Aresté. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani-adulti. Contenuti: V, S (ACEPRENSA)

Appaloosa

17/1/2009. Regista: Ed Harris. Sceneggiatura: Ed Harris, Robert Knott. Interpreti: Ed Harris, Viggo Mortensen, Renée Zellweger, Jeremy Irons, Timothy Spall, Ariadna Gil. 114 min. USA. 2008. Giovani. (VSD)

Di fronte a un film come Appaloosa uno può entrare nell’eterno dibattito se il western è un genere morto o no. All’evidenza che, sia pur col contagocce, si continuano a fare buoni film del west (Open Range, L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford, Quel treno per Yuma, sono soltanto alcuni tra gli esempi recenti), ci sarà chi controbatterà, a ragione veduta, che la qualità di questi film non corrisponde ai risultati economici. In somma, davanti a una storia come Appaloosa uno può trincerarsi dietro lezioni di teoria cinematografica, ma può anche dimenticarsele e divertirsi con un piccolo gioiello che, senza eccessive pretese, mi sembra uno dei migliori film degli ultimi mesi.



A 57 anni, Ed Harris si mette di nuovo dietro la cinepresa –lo fece con Pollock- per girare un film che non pretende di essere originale. Al contrario, si vanta di copiare i classici; o meglio, “il classico”, perché Appaloosa si riferisce direttamente al cinema di John Ford, l’uomo “che faceva western”.

Harris dimostra –come dimostrò Ford in Ombre Rosse o L’uomo che uccise Liberty Valance, riferimento obbligato- che, per girare un buon western, sono sufficiente tre o quattro personaggi ben costruiti, dei dialoghi scritti bene e un paio d’inseguimenti e duelli correttamente girati.

Con questi strumenti utilizzati per fare i migliori western, Harris costruisce Appaloosa partendo da un romanzo di Robert B. Parker: la storia di una solida amicizia tra due rudi cowboy, della loro inimicizia con il cattivo del posto (Irons) e di una donna che si frappone (Zellweger). Questa narrazione apparentemente semplice è arricchita dalle recite meravigliose che tirano fuori il massimo da personaggi per sé molto ricchi. Ci sono dialoghi deliziosi (e in alcuni momenti molto divertenti) e un ritmo tranquillo, che scorre lievemente e non stanca mai.

Appaloosa non ha nessun limite? Certo, ci sarà chi sente la mancanza di un montaggio con più effetti, chi si aspetterà più lotte, chi si sentirà deluso della deliberata semplicità dell’impostazione o chi penserà che in un western, i cattivi devono essere più cattivi, e i buoni più buoni (forse è l’unica concessione alla modernità che fa questo classico western). Ma sono sempre difetti minori che non impediscono che Appaloosa, senza essere un capolavoro, ci faccia intuire perché ai nostri nonni piacevano tanto i film del West. Ana Sánchez de la Nieta. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani. V, S, D (ACEPRENSA)

La felicità porta fortuna

17/1/2009. Regista: Mike Leigh. Sceneggiatura: Mike Leigh. Interpreti: Sally Hawkins, Alexis Zegerman, Andrea Riseborough, Samuel Roukin, Sinéad Matthews. 118 min. Gran Bretagna. 2008. Adulti. (XD)

Dopo un dramma storico-propagandistico (Il segreto di Vera Drake), Mike Leigh (Manchester, 1943) torna al cinema che fece agli inizi degli anni novanta (Dolce è la vita, e soprattutto, Naked) per offrirci una commedia sarcastica su una stravagante maestrina che si prende la vita in modo tanto frivolo come surrealista. Poppy è una donna celibe di 30 anni che, malgrado lavori seriamente nella scuola, vive e si relaziona con gli altri come una adolescente.



L’aspetto più riuscito di Leigh è che lo spettatore riesce a trasformare in una certa empatia lo sconcerto che produce la protagonista nei primi minuti (sconcerto e voglia di prenderla a sberle). Parte del merito è la buona recitazione di Sally Hawkins, che ha ottenuto l’Orso di Argento come migliore attrice a Berlino. Ci sono anche un paio di scene molti divertenti –la lezione di flamenco è esilarante- e diversi dialoghi ben scritti.

Il resto è troppo visto, e il risultato finale è un film squilibrato, eccessivamente lungo e con cadute di ritmo. Leigh sembra voler fare una Amèlie in versione inglese urbana e mette sul campo molti argomenti (la crisi della maturità, il caos nei rapporti affettivi, l’educazione, l’emigrazione…) trattate con superficialità e disordine. Alla fine, una commedia troppo indigesta, rozza e melanconica, o un dramma eccessivamente vuoto. In ogni caso, un Leigh minore, molto lontano della sua opera maggiore, Segreti e bugie. Ana Sánchez de la Nieta. ACEPRENSA.

Pubblico: Adulti. Contenuti: X, D (ACEPRENSA)

Un matrimonio all'inglese

17/1/09. Regista: Stephan Elliott. Sceneggiatura: Stephan Elliott, Sheridan Jobbins. Interpreti: Jessica Biel, Kristin Scott Thomas, Colin Firth, Ben Barnes, Kris Marshall. 97 min. Gran Bretagna. 2008. Adulti. (S)

Un giovane aristocratico inglese s’innamora pazzamente di una ragazza nordamericana pilota di corse automobilistiche, e la sposa subito. Quando gli sposi novelli arrivano alla villa di famiglia in campagna, la mamma di lui sente una immediata avversione per la nuora. L’enigmatico papà è un tipo che ne ha visti di tutti i colori.

Libero adattamento della pièce teatrale di Nöel Coward, andata in scena per la prima volta nel 1925, e portata al grande schermo da Hitchcock tre anni dopo.

“Non volevamo –dice il regista- fare un film d’epoca, bensì un film moderno per un pubblico moderno, perciò abbiamo tentato di dargli una voce contemporanea. È difficile arrivare a una mediazione, perché, di fatto, quando gli attori sono arrivati, hanno iniziato a fare un Coward teatrale, tanto che ho dovuto dire loro che mi dovevano parlare come se non stessero recitando, come se stessimo parlando per strada, e così finalmente abbiamo trovato un tono che ci piaceva. Siamo impazziti anche con la colonna sonora, e abbiamo utilizzato effetti speciali straordinari che non compaiono nei film di epoca”.

Questa dichiarazione d’intenti di Stephan Elliot spiega gli evidenti e numerosi problemi di un film che non trova il tono giusto e che soffre le conseguenze dei capricci –della mancanza di cultura- di uno di quei registi che prima de trasformare le opere di altri potrebbe scrivere una scenoggiatura originale e farci sentire la qualità della propria voce.

Può sembrare che io sia indignato per Coward. Niente affatto. Il lavoro di Coward è una pièce di un inesperto giovanotto poco più che ventenne, che non si avvicina all’abbagliante talento di Oscar Wilde nè all’invidiabile mestiere di George Bernard Shaw. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

Pubblico: Adulti. Contenuti: S (ACEPRENSA)

Yes man

17/1/09. Regista: Peyton Reed. Sceneggiatura: David Iserson, Andrew Mogel, Jarrad Paul. Interpreti: Jim Carrey, Zooey Deschanel, Danny Masterson, Terence Stamp, Bradley Cooper. 104 min. USA. 2008. Giovani-adulti. (SD).

Jim Carrey indossa il personaggio di Carl Allen, grigio impiegato di banca, amareggiato per l’abbandono di sua moglie, e incapace di superare il divorzio. Un giorno partecipa a un seminario di auto aiuto –abbastanza assurdo-, dove viene invitato a dire di “sì” alle proposte e opportunità che incontrerà. Lui lo prende alla lettera e si impegna a dire di sì a tutto, e questo sproposito ha delle conseguenze impreviste. La sua vita cambia in meglio, smette di essere triste e si trasforma in un uomo allegro, capace di avere amici e di fare qualche cosa per gli altri, di superare il suo trauma e di tornare a innamorarsi.



Peyton Reed, che aveva realizzato un paio di commedie più con buona intenzione che con fortuna (Ti odio, ti lascio, ti…, Ragazze nel pallone), ci sorprende con un film brillante, di taglio classico, costruito a base di humour e di amicizia, con situazioni autenticamente divertenti e un pizzico di fantasia. Lo schema classico, basato sull’intelligente libro del britannico Danny Wallace, mostra un uomo assurdo obbligato a dire di sì contro i suoi principi e suoi istinti, obbligato ad essere spettatore del risultato, prima di trasformarsi in protagonista della sua vita.

Il film, in qualche momento un po’ osé, con qualche caduta di tono e battuta grossolana, è quasi familiare e di stile capriano; invita a fare uno sforzo per essere felice, e a pensare agli altri; e lascia un buon sapore in bocca. Fernando Gil-Delgado. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani-adulti. Contenuti: S, D (ACEPRENSA)

Il giardino dei limoni

17/1/09. Regista: Eran Riklis. Sceneggiatura: Suha Arraf, Eran Riklis. Interpreti: Hiam Abbass, Ali Suliman, Doron Tavory, Rona Lipaz, Tarik Copti. 106 min. Israele, Germania, Francia. 2008. Giovani

Salma, una vedova palestinese di 45 anni, è proprietaria di un campo con alberi di limoni, ereditato da suo padre. Quando il ministro della Difesa israeliano costruisce una casa che confina con la proprietà di Salma, i servizi segreti consigliano di abbattere gli alberi perché sono pericolosi per la sicurezza del ministro e della sua famiglia.



Eran Riklis è un veterano del cinema israeliano, e il suo precedente film, La sposa siriana, ha avuto una buona accoglienza nei festival del cinema. Con l’aiuto di una sceneggiatrice palestinese (la giornalista e documentarista Suha Arraf) ha ottenuto una storia solida su “persone che si scontrano per cose che si potrebbero risolvere molto facilmente se fossero state capaci di ascoltare”. E di qualità speciale l’indovinata fotografia dello svizzero Rainer Kausmann (La caduta, Invasion), che si ricrea nella magnifica attrice protagonista, Hiam Abbass (Nazareth, 1960) in un film ben fatto, ameno, emotivo e teso.

Il giardino dei limoni è interessante e valido, ma lo sarebbe molto di più se Riklis e Arraf avessero saputo fare a meno di alcuni ingredienti (la love story tra la vedova e l’avvocato, la situazione del matrimonio del ministro, gli aspetti caricaturisti di alcuni personaggi secondari e delle corrispondenti situazioni) che tolgono forza a un film che in alcuni momenti diventa enfatico e semplicistico. Probabilmente l’intenzione era di umanizzare la storia e portarla a un semplice racconto di solitudine femminile, ma la verità è che “globalizzando” i conflitti per via sentimentale, Riklis banalizza il suo film e lo rende eccessivamente didattico.Alberto Fijo. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani. (ACEPRENSA)