E venne il giorno

21/6/2008. Regista: M. Night Shyamalan. Sceneggiatura: M. Night Shyamalan. Interpreti: Mark Wahlberg, Zooey Deschanel, John Leguizamo, Betty Buckley, Frank Collison, Ashlyn Sanchez, Spencer Breslin, Robert Bailey Jr. 91 m. USA, India. 2008. Giovani (V)

Un bel mattino, la gente comincia a suicidarsi in massa: in primo luogo al Central Park, poi in altre zone di New York. Infine, in molti luoghi della costa orientale degli Stati Uniti. Questi raccapriccianti eventi generano una fuga disperata all’Ovest, coinvolgendo una giovane coppia -professore di scienze lui, dirigente aziendale lei- che sta passando un delicato momento di reciproca sfiducia. Con l’ulteriore incombenza di farsi carico della figlia di un amico di lui, partito alla ricerca della propria moglie. Il peggio è che nessuno capisce se gli incidenti si devono ad un attacco terroristico con arme chimiche o biologiche, ad un sperimento militare fallito o ad una reazione della natura, come conseguenza dell’inquinamento prodotto dal’uomo. Forse, semplicemente, è arrivata la fine del mondo.



Il cineasta indoamericano, di 37 anni (Il sesto senso, Lady in the water), torna ad esibirsi nella creazione di tensione da suspense, in un’atmosfera angosciante e durevole, dove emergono con stridente lucidità conflitti umani di prim’ordine. Tra questi: la violenza dell’istinto di sopravivenza, la forza dell’amore, il valore del sacrificio, la fedeltà coniugale e il perdono; nonché le limitazioni della scienza o la fragilità umana davanti ai misteri della natura, utilizzata forse dalla provvidenza divina per aiutare l’essere umano a delimitare il senso della sua vita e i valori veramente importanti per portarla bene a termine.

Certamente, lo sviluppo e il finale non sono capaci di sostenere la potenza visiva e drammatica della splendida partenza. Nel desiderio di attingere e mantenere in quota questo forte impatto iniziale, Shyamalan esagera un po’ nel trattamento della violenza. Per esempio, nella sottotrama dei due adolescenti che accompagnano -per un tratto- i protagonisti. Ad ogni modo, Shyamalan realizza una rigorosa direzione di attori -splendida per Mark Wahlberg e Zooey Deschanel-, e inizia diverse sequenze con un’emotività carica di angoscia. Con ciò, conferma -tramite l’inquietante messa in scena- di candidarsi a primo erede di Alfred Hitchcock: il mago del suspense. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani. Contenuti: V (ACEPRENSA)

L'incredibile Hulk

21/6/2008. Regista: Louis Leterrier. Sceneggiatura: Edward Norton, Zak Penn. Interpreti: Edward Norton, Liv Tyler, Tim Roth, Tim Blake Nelson, Ty Burrell, William Hurt. 114 m. USA. 2008. Giovani (V, S)

Il francese Louis Leterrier (Transporter: Estreme, Danny the dog) è stato il regista scelto da Stan Lee, proprietario della Marvel, per dirigere questo secondo lungometraggio sulle traversie del noto personaggio dei fumetti, Bruce Banner, scienziato che ha subito un’esposizione radioattiva che altera il suo organismo, in modo che -quando il suo dinamismo tende ad accelerare- si trasforma in Hulk, indistruttibile gigante verde.



Non ci sono grandi innovazioni, rispetto al film del 2003 diretto dal taiwanese Ang Lee. Edward Norton, uno dei grandi attori del momento, recita molto bene il personaggio stevensoniano, tagliato su misura per lui, se non altro perché l’attore è anche coautore del copione. Fatto davvero sorprendente, tenendo conto che è all’esordio, come soggettista cinematografico.

Il film, decisamente d’azione, rivela una messa in scena spettacolare, assai fedele al fumetto originale. Liv Tyler non è Jennifer Conelly, ma apporta dolcezza (un po’ sciocca, certamente) al personaggio di ricercatrice, innamorata di Bruce Banner, nonché figlia del militare che perseguita ossessivamente Hulk. Tim Roth risulta un pò troppo magrolino, per impersonare un militare da corpo di élite: non sembra molto a suo agio, col ruolo affidatogli.

In conclusione, si tratta di un divertente comic, trasposto per cinema, con le modalità espressive ben note di questo sottogenere di supereroe, risultato un giocattolo assai costoso (125 milioni di dollari di spesa). È tuttora in lizza, per superare il precedente omologo (245 milioni di dollari) nonché quel recentissimo e affine per genere Iron Man, arrivato ad incassare la bella somma di 538 milioni di dollari. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani. Contenuti: V, S (ACEPRENSA)

Sex and the city

21/6/2008. Regista: Michael Patrick King. Sceneggiatura: Michael Patrick King. Interpreti: Sarah Jessica Parker, Kim Cattrall, Kristin Davis, Cynthia Nixon, Chris Noth, Candice Bergen, Jennifer Hudson, David Eigenberg, Evan Handler, Jason Lewis, Mario Cantone. 140 m. USA. 2008. Adulti (X, D)

Il prototipo di Sex and the City è la serie statunitense trasmessa dalla rete HBO, tra il 1998 ed il 2004. Vi si racconta la storie di quattro donne celibi, sulla quarantina, ossessionate da moda, amore e sesso. Il tono piccante lo si deve alla narratrice, una giornalista, a lungo titolare di una rubrica settimanale sulle abitudini sessuali degli abitanti di New York. Se alcuni hanno scorto, nel serial, una proposta di avanguardia circa la femminilità e, al contempo, la capacità di infrangere tabù, altri hanno invece criticato la penosa immagine di donna che ne esce fuori, molto lontana dalla realtà e abbastanza decadente; anche se veste secondo la moda più esigente.

Quattro anni dopo l’ultimo episodio, Michael Patrick King -uno degli sceneggiatori della serie, nonché regista di diversi capitoli della stessa- scrive, dirige e produce il film che vi trae spunto. La qualità del prodotto non dà luogo a molti commenti: si tratta di un episodio molto stiracchiato, dove -come in ogni serial, degno di questo nome-, l’unica tensione reale si riduce a sapere se la protagonista si sposa o meno. Le recitazioni risultano stereotipate, se non -a volte- ridicole (limite che si sopporta con più indulgenza, nei serial TV). L’unico elemento degno di nota (oltre i costumi di Patricia Field) è una certa critica -così arrendevole, da passare quasi inosservata- ad una società costruita tutta sulla prevalenza dell’immagine, dell’apparenza.

Il film eredita, dalla serie TV, il protagonismo della moda (più di 80 vestiti per Sarah Jessica Parker), il consumismo ossessivo (ci sono momenti che sembra di assistere ad un documentario pubblicitario su vestiti, alberghi, appartamenti e ristoranti), Insomma: frivolezza a tutto campo, con elevate dosi di alto voltaggio sessuale -più misurate rispetto alla serie, ma ugualmente stolide- affioranti nelle conversazioni e nelle scene.

Le protagoniste continuano ad essere isteriche, ma c’è qualche cosa che balza all’occhio. Quelle che nel serial apparivano quattro mangia-uomini (pronte a qualunque avventura), in apparenza beate, nella loro liberale mancanza d’impegno, finiscono, nel film, per evocare -al contrario- un tacito inno alla famiglia unita, alla maternità e alla fedeltà. Ciò che resta, in mezzo a tanta deprecabile superficialità, è elementare: quattro donne che parlano di sesso, ma evidentemente hanno bisogno di qualcosa di più elevato… e non proprio di uomini da quattro soldi. La scoperta dell’acqua calda.

Il film ha ricavato più di 200 milioni di dollari. Negli States ha superato, all’esordio, il quarto film della serie Indiana Jones. Ana Sánchez de la Nieta. ACEPRENSA.
Pubblico: Adulti. Contenuti: X, D (ACEPRENSA)

Noi due sconosciuti

21/6/08. Regista: Susanne Bier. Sceneggiatura: Allan Loeb. Interpreti: Halle Berry, Benicio Del Toro, David Duchovny, Alexis Llewellyn, Micah Berry, John Carroll Lynch, Alison Lohman, Robin Weigert, Paula Newsome, Omar Benson Miller. 118 m. USA, Gran Bretagna. 2007. Giovani-adulti (S, D)

La regista danese Susanne Bier (Non desiderare la donna d’altri, Dopo il matrimonio) intraprende l’avventura americana, ricorrendo alla sceneggiatura di Allan Loeb. La tematica resta sostanzialmente fedele al proprio genere cinematografico. Vi dominano tipi umani, misurati dai loro problemi quotidiani, che -se duri e difficili da sopportare-, emergono in un taglio ancora più netto e delineato.

La narrazione inizia in stile decostruttivista, alternando le scene della vita famigliare dei Burke -la coppia di Brian e Audrey e i due bambini, Harper e Dory-, alla solida amicizia di Brian con Jerry -tossicodipendente che cerca di superare questa sua debolezza, davvero grato che il suo amico di una vita continui a mantener viva la sua lealtà-, nonché ai preparativi funebri, dovuti alla tragica e inattesa morte di Brian. La buona sceneggiatura, che segue poi canoni più classici, disegna bene i personaggi, presentando in modo convincente l’inferno che vive Jerry, dovuto al suo vizio; nonché le gelosie di Audrey, quando scopre aspetti profondi della vita del marito, più noti all’amico del marito che a lei.

Il lavoro di Halle Berry e Benicio del Toro rende inevitabile l’allusione ai sofferenti protagonisti dei film precedenti: Monster’s Ball e 21 grammi, premiati con due Oscar, e rivelano certamente punti in comune. Anche se di variabili della vita, in questa “valle di lacrime”, non se ne vedono tante: amore, sacrificio, dolore, morte, speranza, redenzione, lotta…. A queste rinvia Bier, con sensibilità e finezza, pur dovendo concludere troppo spesso -per esigenze di copione- sull’unico tasto di saper accettare quel che c’è di buono negli altri e in sé stessi. La regista lavora con una camera a mano nervosa, metafora della fragilità dell’esistenza. Mostra comunque una certa delicatezza, nel tratteggiare la vita coniugale, o alludere indirettamente all’aiuto divino nella preghiera durante le riunioni di tossicodipendenti che Jerry evita di recitare, anche se porta una croce appesa al collo. José María Aresté. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani-adulti. Contenuti: S, D (ACEPRENSA)

Il divo

21/6/2008. Regista: Paolo Sorrentino. Sceneggiatura: Paolo Sorrentino. Interpreti: Toni Servillo, Anna Bonaiuto, Piera degli Espositi, Giulio Bosetti, Carlo Buccirosso, Flavio Bucci. Massimo Popolizio, Giorgio Colangeli. 110 m. Italia. 2007. Dramma. Giovani-adulti.

Un ritratto di Giulio Andreotti nella prima metà degli anni ’90 – dall’insediamento del suo settimo governo all’apertura del processo che lo vide imputato come mandante dell’omicidio di Mino Pecorelli – come bilancio della storia italiana del Dopoguerra.

Un film su Giulio Andreotti: scelta ardita ma, in effetti, non sorprendente. Il senatore a vita è ormai da tempo più personaggio letterario che di cronaca, un’icona, una metafora vivente della Politica, del Potere, dell’Italia. Poche figure della nostra storia repubblicana suscitano altrettante sensazioni contraddittorie: fascino e repulsione, ammirazione e deprecazione, reverenza e sarcasmo, pietà e odio. Da decenni, come riepiloga il film, fioriscono soprannomi che tentano di afferrarne la natura: Sfinge e Gobbo, Volpe e Salamandra, Divo Giulio e Belzebù. Insomma, con una figura come quella di Andreotti un autore ci va a nozze, tale è l’abbondanza di spunti. Ma è proprio quando il personaggio che lo ispira sembra più inventato che reale, che diventa difficile fare un film biografico. Fra tanti spunti possibili, quali scegliere? Fra tante chiavi interpretative, quali usare?

Paolo Sorrentino, uno dei più giovani (ha meno di 40 anni) e talentuosi registi italiani (Le conseguenze dell’amore, del 2004) ha una buona idea: raccontare solo quattro anni della decennale vicenda politica di Andreotti. Dall’ultimo governo come Presidente del Consiglio al processo come mandante di un omicidio. Dagli altari alla polvere. Con, in mezzo, la gloria appena sfiorata della Presidenza della Repubblica. Less is more, insegnano gli americani. E questo vale anche per i film biografici. Nelle interviste Sorrentino ha dichiarato di aver voluto fare un film sulla complessità del potere. Come Andreotti stesso dichiara a Scalfari che, in una scena del film, gli ha posto una serie di domande tendenziose (dalle quali si potrebbe evincere che Andreotti è l’ispiratore di praticamente tutte le stragi dall’immediato dopoguerra ad oggi): “le cose sono un po’ più complesse”. Un film, si potrebbe dire, sul machiavellismo: Andreotti, in una scena di confessione al pubblico dichiara: “La nostra, inconfessabile contraddizione: perpetuare il male per garantire il bene. Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta e invece è la fine del mondo. E noi non possiamo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta. Abbiamo un mandato, noi. Un mandato divino. Bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il male per avere il bene. Questo Dio lo sa. E lo so anch’io”.

Ma, sebbene la visionarietà registica e il buon cast garantiscano l’oggettiva qualità dello spettacolo, il film non può dirsi riuscito. La complessità che Sorrentino voleva raccontare non va oltre quella informativa: Il Divo presenta un profluvio di nomi, date, circostanze, neanche fosse un libro di Travaglio. Il machiavellismo che doveva esserne il tema non viene sviscerato al di là del mero, generico, enunciato sopra citato: perpetuare il male per garantire il bene. E il film risulta un ritratto baconiano basato su una tesi molto semplice: Andreotti è un mostro responsabile dei 236 morti e 817 feriti (è un bilancio esplicitato nel film) a cui assommano decenni di stragi e omicidi politici italiani; circondato da un gruppo di “bravi ragazzi” (le citazioni dai film di genere mafioso sono marcate) – Paolo Cirino Pomicino, Giuseppe Ciarrapico, Vittorio Sbardella, Franco Evangelisti e il cardinale Fiorenzo Angelini (tutti sullo stesso piano) – ha collaborato con Mafia, Camorra, P2 e Vaticano (tutti sullo stesso piano) per conservare il potere (o, si dice, vagamente, per evitare il “pericolo comunista”), eliminando (o permettendo che fossero eliminati) tutti coloro che avrebbero potuto denunciarlo (Aldo Moro, Mino Pecorelli, il Generale Dalla Chiesa, Roberto Calvi, Michele Sindona).

Insomma: niente che non si trovi in una puntata tipo di Annozero (che, infatti, al film ha dedicato un’intera serata). Più che tematizzare la complessità, il film enuncia in modo apodittico una tesi semplice-semplice, in modo confuso-confuso: nel tono grottesco si mescolano in modo subdolo flash-back e flash-forward, narrazione oggettiva (“vera”) e illustrazione di un punto di vista soggettivo (non necessariamente credibile), tono grottesco e taglio da reportage (titoli di testa e didascalie a esplicitare nomi, date, circostanze). Insomma: Il Divo fa proprio come il tendenzioso Scalfari nella scena sopra citata (che per Sorrentino è la scena madre del film): insinua, lascia intendere, dice qualcosa facendo finta di non dirla. È esasperante. Anzi è andreottiano (nel senso usato dai detrattori) del termine.

Ed è invece praticamente assente ciò che da un film, come minimo, ci si aspetta: il dramma, il dilemma morale, le scelte problematiche fra due mali. Questa, che è la vera complessità, della vita di Andreotti come di quella di ognuno di noi, non viene lontanamente sfiorata. E così, in fondo, il tutto si riduce a poco più che un videoclip, molto fantasioso, molto tarantiniano, molto pop – ma anche piuttosto noioso – dove, al posto della musica, c’è un ritmo di citazioni (queste, effettivamente, memorabili) di Giulio Andreotti. Francesco Arlanch. Per gentile concessione di FAMILYCINEMATV.

Valori/Disvalori: Il film insinua, lascia intendere, dice qualcosa facendo finta di non dirla. È esasperante. Anzi è andreottiano.

Si suggerisce la visione a partire da: Adolescenti. Alcune scene di violenza.

Giudizio tecnico: Sebbene la visionarietà registica e il buon cast garantiscano l’oggettiva qualità dello spettacolo, il film non può dirsi riuscito.

Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo

7/6/2008. Regista: Steven Spielberg. Sceneggiatura: David Koepp. Interpreti: Harrison Ford, Shia LaBeouf, Cate Blanchett, Karen Allen, Ray Winstone. 124 min. USA. 2008. Tutti.

Recentemente, nella recensione a un’edizione dvd de I predatori dell'arca perduta, ho scritto che questo film -distribuito nel 1981- resta uno dei migliori film di avventure della storia del cinema. Il copione di Lawrence Kasdan venne trasposto su grande schermo da Steven Spielberg, all’epoca regista trentacinquenne e già famoso per film come Lo squalo e Incontri ravvicinati del terzo tipo. Anche allora, Spielberg si avvaleva dell’inestimabile collaborazione tecnica di George Lucas. Per il personaggio dell’archeologo Indiana Jones, si scelse un attore di 39 anni, tale Harrison Ford. Questi, a sua volta, si era imposto alla pubblica notorietà nel 1977, per aver impersonato Han Solo, il simpatico contrabbandiere di Guerre stellari. Spielberg riuscì ad ottenere un equilibrio quasi perfetto, in un film dinamico e divertente, con sequenze di azioni molto intense e creative.



Ventisei anni dopo, Spielberg realizza il quarto film della saga. Gli altri due episodi intermedi risalgono al 1984 e al 1989. Il terzo, Indiana Jones e l’ultima crociata, ottenne un’accoglienza assai favorevole dal pubblico, specie per il decisivo contributo del simpatico personaggio del padre di Indiana Jones, interpretato dallo scozzese Sean Connery, magnificamente inserito in una trama ingegnosa, di vivace esotismo: trepidante e divertente.

Il risoluto archeologo/eroe ha cercato varie cose: in primo luogo l’Arca perduta di Israele, poi un tempio maledetto di adoratori della dea Kalì; quindi, il Santo Graal. In quest’ultimo episodio, eccolo alla ricerca di un teschio intagliato in cristallo di rocca, con strani poteri, che porterà un Indiana Jones- ormai cinquantenne (l’azione è ambientata nel 1957)-, fino ad una sperduta città peruviana.

Questa introduzione era necessaria a motivare le attese dello spettatore dei precedenti episodi, che andrà ora a vedere questo film, proprio per ritrovarsi con l’Indiana Jones che ben conosce. Sarà un felice nuovo incontro, perché il film è divertente e spettacolare, pur non risultando dotato dello stesso carisma avventuroso che caratterizza il primo ed il terzo episodio. Assomiglia più a allo stile del secondo, con cui condivide parecchi elementi tematici e stilistici.

Della realizzazione bisogna segnalare come resti fedele -molto fedele- allo stile consolidato della saga. Emerge l’elegante classicismo della fotografia del tre volte vincitore dell’Oscar, Janusz Kaminski; un fluido e preciso lavoro di Michael Khan, montatore abituale di Spielberg; la popolare e orecchiabile colonna sonora di Williams, con il suo tema di “carica” e le sue melodie adatte al clima di ambienti misteriosi; infine, il magnifico lavoro sul sonoro della geniale team della IL&M, che ha rivoluzionato l’audio cinematografico, sotto l’egida del coproduttore George Lucas.

Ho voluto rivedere alcuni particolari della ricercata -e molto strategica- fedeltà stilistica, perché risulta evidente come Spielberg non abbia imitato il socio Lucas, nel modo di prolungare la saga di Guerre stellari con una rottura formale e contenutistica. Spielberg, inoltre, usa gli effetti digitali -ma con misura-, in modo da continuare a diffondere la forza della scenografia e l’estenuante lavoro delle comparse, al solo scopo di immergere lo spettatore nell’avventura, nel rischio, nella verosimile azione inverosimile: a distanza ravvicinata.

Anche il copione pare fedele allo stile e al personaggio, ma fino ad un certo punto. Si cerca la continuità con lo spirito della saga, anche riuscendovi, ma quasi per inerzia, senza particolare splendore. La sceneggiatura di David Koepp (La guerra dei mondi, Spider Man, Jurassic Park, Panic room, Carlito’s way) è meno fluida delle precedenti, in gran parte perché meno divertente. Anche se ci sono momenti riusciti, non si può negare l’esistenza di passaggi un po’ farraginosi, con noiose spiegazioni e dialoghi scontati, quasi svogliati. È evidente, d’altra parte, che Spielberg fa troppe allusioni alle precedenti realizzazioni: c’è un insistente tributo alla saga, alla carriera di Spielberg, al cinema di avventura degli anni 30-40, dichiarata fonte d’ispirazione di Spielberg e Lucas al momento di inventarsi il personaggio di Indiana Jones.

Un 7 su 10, insomma, per un film meritevole, che riflette il suo glorioso passato ma forse con più routine del lecito. Anche la recitazione degli attori risulta un po’ sotto tono (specialmente quella di Karen Allen e di Cate Blanchett, senza una proiezione di sviluppo dei personaggi: colpa dello sceneggiatore). C’è una spettacolare sequenza di inseguimento -la scena migliore del film- che dura venti minuti: al 100%, in puro stile Indiana Jones. Si svolge “nella migliore tradizione della Cavalleria”, come direbbe il maestro Ford, per bocca dell’indimenticabile John Wayne che, insieme a quella forza della natura che fu Buster Keaton, rappresenta l’humus da cui sono poi emersi i migliori eroi creati dal cinema a stelle e strisce. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

Pubblico: Tutti. Contenuti: -- (ACEPRENSA)

Once

7/6/2008. Regista: John Carney. Sceneggiatura: John Carney. Interpreti: Glen Hansard, Markéta Irglová, Bill Hodnett, Danuse Ktrestova. 91 m. Irlanda. 2006. Giovani.

“La formula è molto semplice: due persone, alcuni strumenti musicali, 91 minuti, nessuna nota stonata”: così riassume Once, la critica apparsa sul The New York Times. Il film è una breve storia, girata con un budget di 180.000 euro, (ha ricavato 9 milioni di dollari negli States, e 350.000 euro in Irlanda). Vi si narra, in formato da “album musicale”, la storia di amore tra un musicista di strada irlandese, che aiuta il padre a riparare gli aspirapolvere, e una giovanissima pianista di origine ceca, che si guadagna da vivere come venditrice ambulante. Una storia che, come lo stesso John Carney –regista e sceneggiatore- confessa, voleva sviluppare in sole 20 pagine (10 fogli), perché il resto viene narrato nelle canzoni.



Questo breve film, girato con la camera a mano, in stile familiare e in un tono lontano da ogni artificio (difficile oggi trovare un musical che non accampi qualche pretesa), è un piccolo capolavoro: piccolo, ma capolavoro.

Per molti motivi: perché la musica, sensazionale, è perfettamente incastonata nella storia… Meglio: è la storia stessa. Inoltre, la recitazione degli attori -di sorprendente naturalezza- risulta splendida (i due protagonisti sono musicisti: non devono far grandi sforzi per interpretare il significato che l’arte riveste per loro). Infine, e soprattutto, perché vanta un copione di una freschezza totalmente avvincente, con una costruzione dei personaggi che rivela una visione dell’essere umano capace di comunicare un contagioso ottimismo.

Abbiamo visto migliaia di storie romantiche, centinaia di musical, decine di biopics di musicisti, ma l’originalità di Once è esemplare. John Carney (che prima di fare il regista ha suonato nei The Frames, la band del protagonista) si allontana radicalmente dai luoghi comuni, sia nel raccontare la storia d’amore, sia nello spiegare il processo di creazione musicale. Anzi, proprio grazie a questa originalità, gli si schiudono svariate possibilità: la protagonista può essere ingenua -tra l’altro ha recitato nel film con l’età propria della ingenuità, 17 anni- senza negoziare la sua integrità. Cosí che il protagonista maschile può innamorarsene, ma senza ossessioni travolgenti; e sono amici, in una banda di rock che passa la notte a registrare musica, non avendo bisogno di ricorrere alla droga; e ti lascio una registrazione: metti tu le parole; e una cosa è la canzone, un’altra la vita; mi ripari l’aspirapolvere?; e cerca di prendere l’accordo; tu piangi e io ti consolo; tu hai la tua vita e la rispetto; e nessuno si butta da un ponte….

Man mano che ci si impregna di questo puro realismo, lo spettatore s’innamora della storia, della musica, dei personaggi. È quanto avvenuto al pubblico dell’ultimo festival di Sundance, che proprio per questo ha premiato il film. Di diverso parere la critica, che sembra non apprezzare il cinema indipendente e fuori dagli schemi: ha premiato Padre nuestro. Io, sto dalla parte del pubblico. Ana Sánchez de la Nieta. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani. Contenuti: -- (ACEPRENSA)

Un amore di testimone

7/6/2008. Regista: Paul Weiland. Sceneggiatura: Adam Sztykiel, Deborah Kaplan, Harry Elfont. Interpreti: Michelle Monaghan, Patrick Dempsey, Kathleen Quinlan, Kevin McKidd, Sydney Pollack, Chris Messina, Busy Phillipps, Richmond Arquette. 101 m. USA, Gran Bretagna. 2008. Giovani-adulti. (D, S)

Tom e Hannah sono amici da anni. Tanto che, quando Hannah decide di sposarsi con un duca scozzese, chiede a Tom di farle da testimone di nozze. Il problema è che lui pensa che sia lei la donna della sua vita. Per questo, cercherà di impedirne le nozze.



Su matrimoni sbagliati, che si salvano o meno -in extremis-, e i dilemmi tra amico-disastro e fidanzato esemplare c’è un capolavoro: Scandalo a Filadelfia (Gorge Cukor, 1940). Il resto, sono tutte imitazioni. E questa, evidentemente, non risulta tra le migliori. Paul Weiland, che ha diretto quasi dieci anni fa For the love of Roseanna (molto più originale), fa leva su banali luoghi comuni -talvolta esibiti in modo dozzinale- per disegnare in questo modo i relativi personaggi: i maschi tutti donnaioli; le donne che sospirano per regali a sorpresa, ben infiocchettati. E tutti che vogliono che le cose finiscano, proprio come devono finire in un commedia.

Il film è dunque prevedibile fin dall’inizio. Ciononostante, si salva per “la storia universale” da cui sorge il gusto del pubblico -anche questo pressoché universale- per le commedie (é la nostalgia di questa, che ne riaccende la sete). Inoltre, emerge una coppia protagonista, che non stona. Senza peraltro arrivare a paragonare il protagonista di Grey’s Anatomy, Patrick Dempsey, e l’ingegnosa Michelle Monaghan, ad un certo Cary Grant o ad una certa Katherine Hepburn. Ana Sánchez de la Nieta. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani. Contenuti: D, S (ACEPRENSA)

Chiamata senza risposta

7/6/08. Regista: Eric Valette. Sceneggiatura: Andrew Klavan. Interpreti: Edward Burns, Shannyn Sossamon, Ray Wise, Azura Skye, Ana Claudia Talancón, Johnny Lewis. 87 m. Giappone, USA, Germania. 2008. Adulti (VS).

Poco dopo la strana morte di una giovane in un stagno, una sua amica riceve un messaggio vocale sul proprio cellulare. Nel messaggio riconosce la sua stessa voce, che indica il giorno, l’ora e qualche dettaglio della sua prossima morte violenta. Due giorni più tardi, all’ora annunciata nel messaggio, muore anche lei, pronunciando quelle stesse parole e grida. Ed ecco che il suo cellulare si attiva ed invia un messaggio ad un amico, il cui numero si trova sull’agenda del telefonino della vittima…

Chiamata senza risposta è un remake del film del giapponese Takashi Miike, adattato -per l’occasione- al pubblico occidentale, ad opera del regista francese Eric Valette. Bisogna chiarire che il cinema del orrore giapponese difficilmente si presta a trasposizioni in stile occidentale. In questo caso, la regia risulta abbastanza piatta e l’attrice principale, inespressiva. Burns, da parte sua, è professionale. Il copione guadagna in continuità rispetto all’originale, assai slegato, ma troppo spesso è decisamente prossimo al ridicolo. Fernando Gil-Delgado. ACEPRENSA.

Pubblico: Adulti. Contenuti: V, S (ACEPRENSA)

Gomorra

7/6/2008. Regista: Matteo Garrone. Sceneggiatura: Matteo Garrone, Massimo Gaudioso, Roberto Saviano, Maurizio Braucci, Ugo Chiti, Gianni Di Gregorio dall’omonimo romanzo di Roberto Saviano. Interpreti: Toni Servillo, Gianfelice Imparato, Maria Nazionale, Salvatore Cantalupo, Salvatore Abruzzese, Marco Macor, Ciro Petrone, Carmine Paternoster. 135 m. Italia. 2008. Dramma. Adulti.

Con la connivenza delle parti vitali della Nazione, uno Sato post-civile si è insediato in Campania e ha trasformato questa regione nella sentina del Belpaese. È il messaggio desolante di un film che mette il dito nella piaga camorrista perché spurghi davanti agli occhi dello spettatore. Il quartiere cementificato di Scampia, le Vele – lo sfacelo dei mega condomini-dormitorio – sono sfondo di cinque storie d'umanità derelitta. Cinque vicende di disperato degrado raccontate in parallelo. Alla loro radice, un unico male morale che detta leggi contro natura a coscienze prive di alternativa.

Poco più che bambino, come tutti i suoi coetanei, Totò (Abruzzese) è iniziato alla vita camorrista con rito barbarico: farsi sparare da pochi metri indossando un giubbotto antiproiettile. Una guerra tra clan, l'affermazione degli "Scissionisti", costringerà Totò a scegliere con chi stare, e a dimostrarlo, facendo attivamente sua la barbarie che lo ha circondato dalla nascita. La faida in corso si abbatte anche sull'esistenza di Don Ciro (Imparato), un pavido contabile. L'uomo campa distribuendo soldi per conto della Camorra alle famiglie dei carcerati. Stipendiato dal clan perdente, Don Ciro proverà a tradire, passando al clan rivale, per continuare a scamparla, mimetizzato nella sua mediocrità impiegatizia.
Le leggi di questo mondo non possono essere violate. Ci provano a violarle, assecondandone la logica fino alle estreme conseguenze, due ragazzi affascinati dal film Scarface e dal mito del boss con nessuno sopra di sé. Marco (Macor) e Ciro (Petrone), due giovani involuti, dagli atteggiamenti animaleschi, si illudono di potersi affrancare superando in spietatezza il loro capoclan. Non faranno in tempo ad accorgersi di quanto irrealistico fosse il loro sogno sbandato.
Dallo Stato nello Stato si può solo andare via, anche se il film nega ai suoi personaggi qualsiasi avvisaglia di un altrove migliore.

Se ne andrà Pasquale (Cantalupo), sarto in una manifattura ricattata e connivente con la Camorra. Prestatosi a dare lezioni di sartoria alla concorrenza cinese, scampato ad una rappresaglia, Pasquale finirà per mollare tutto e fare il camionista. Guiderà verso il Nord, dove si trovano – denuncia il film – le griffes di moda, principali committenti del lavoro nero nei laboratori campani dove Pasquale operava.

Se ne andrà anche Roberto (Paternoster), giovane tecnico illusosi di aver trovato un'occasione. E' stato assunto da Franco (Servillo), imprenditore di successo nello smaltimento dei rifiuti. Ma il titolare è proprio l'emblema del meccanismo per cui una terra dimenticata agisce per la propria autodistruzione. Gli industriali del Nord, infatti, affidano a Franco le loro scorie e fanno finta di non sapere, di essere stati convinti dalle sue assicurazioni di correttezza. Tutto, invece, finisce a riempire crateri scavati con l'appoggio della criminalità. Di fronte ad un uomo che, senza remore, avvelena la sua terra, Roberto si dimetterà: volterà le spalle a Franco, senza sapere, però, dove andare.

La parlata dialettale sottotitolata in italiano, gli attori non professionisti, la macchina da presa che pedina vicinissima i personaggi e si muove come l'occhio di un antropologo che studi i costumi di tribù arcaiche: Garrone ha concepito il suo film come un'immersione iperrealistica nell'universo di Scampia. Brutture fisiche e ambientali riprese con minuzia a specchio di un collasso morale. L'inquadratura si apre poche volte ad accogliere il paesaggio. Quando lo fa, è per dare l'idea di una catastrofe di proporzioni bibliche. Così è per la visione d'insieme delle Vele. Così è, soprattutto, per la discarica gestita da Franco: un gigantesco girone infernale attraversato da camion guidati da bambini involontariamente soggiogati ad un'anormalità aberrante, eppure data per scontata.

L'idea degli autori è che questo macro cosmo sia funzionale al metabolismo del Sistema Paese. La Campania è la pattumiera d'Italia. Il Nord, la cui presenza-assenza è oggetto di accenni severi (l'industriale veneto, le griffes), scarica qui i liquami del suo benessere consumistico. Di questo benessere giungono anche barlumi: il centro estetico della sparatoria d'inizio film, le magliette alla moda che seducono Totò, il piercing, le sopracciglia rasate come il tronista Costantino. Gli indigeni assimilano questi elementi nel loro stile di vita sub umano, facendolo sembrare ancora più atroce.

Il discorso di Garrone consta solo della pars destruens. Il film è riuscito nel suo intento di denuncia – intento, peraltro, comune a gran parte del nostro cinema di autore –. Colpisce, tuttavia, la freddezza e una certa mancanza di empatia e di com-passione nel descrivere i personaggi e i loro drammi. Paolo Braga. Per gentile concessione di FAMILYCINEMATV.

Valori/Disvalori: Il film è riuscito nel suo intento di denuncia. Colpisce, tuttavia, la freddezza e una certa mancanza di empatia e di com-passione nel descrivere i personaggi e i loro drammi. Il discorso di Garrone consta solo della pars destruens.

Si suggerisce la visione a partire da: Maggiorenni.

Elementi problematici per la visione: Una insistita scena di sesso; scene di violenza

Giudizio tecnico: ***. La parlata dialettale sottotitolata in italiano, gli attori non professionisti, la macchina da presa come l'occhio di un antropologo che studi i costumi di tribù arcaiche: Garrone ha concepito il suo film come un'immersione iperrealistica nell'universo di Scampia.