The Queen

18/11/2006. Regista: Stephen Frears. Sceneggiatura: Peter Morgan. Interpreti: Helen Mirren, Michael Sheen, James Cromwell, Sylvia Syms, Helen McCrory. 97 min. GB, Francia, Italia. 2006. Giovani.

La parola più adatta a definire l’ultimo film di Stephen Frears, The Queen, è: “sorprendente”. Sorprendente per la capacità di entrare in un tema tabù (la morte della principessa Diana) e non farlo in punta dei piedi, ma con somma eleganza, rispetto e perfino equanimità. Sorprendente perché, invece di produrre un documentario, opta per un film convenzionale. E ancora sorprendente, perché va fino in fondo, fin nella camera da letto della Regina d’Inghilterra, e non sprofonda.

Questo, l’argomento. Quando la notizia della morte di Lady D colpisce tutto il mondo, la regina Elisabetta II si ritira dietro le mura del castello di Balmoral, con la famiglia, incapace di capire la risposta massiva e devota del popolo alla memoria di Diana. Quando le dimostrazioni popolari di emozione straripano, tocca a Tony Blair, primo ministro appena eletto, trovare il modo di ricongiungere la Regina ad un popolo sempre più distante dalla sovrana.

Questo originale tema dà luogo ad un film che, da un lato, è pieno di humour e ironia; e dall’altro, offre un saggio notevole di alta politica. Due mondi, apparentemente contrapposti, si vedono obbligati a dialogare. La famiglia Blair è moderna, disinvolta; la moglie è antimonarchica. Entrambi vogliono superare formalismi e rigidità istituzionali. La famiglia reale è attaccata alle sue consuetudini ancestrali, nonché riluttante a qualsiasi cambiamento o innovazione.

Questo contrasto è magnificamente gestito da Frears e dagli attori protagonisti, Helen Mirren e Michael Sheen, che superano a pieni voti il compito davvero improbo di rappresentare personaggi così noti. Un autentico gioiello della cinematografia di questo grande specialista che è Stephen Frears. Juan Orellana. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani. (ACEPRENSA)

Il vento che accarezza l'erba

18/11/2006. Regista: Ken Loach. Sceneggiatura: Paul Laverty. Interpreti: Cillian Murphy, Padraic Delaney, Orla Fitzgerald, Liam Cunningham, Roger Allam. 127 min. GB. 2006. Adulti. (VS)

Alcuni contadini diventano guerriglieri, per combattere le truppe britanniche inviate in Irlanda a soffocare le aspirazioni indipendentiste che hanno preso nuovo vigore, dopo l’insurrezione del 1916. Il protagonista principale è Damien, studente di Medicina che abbandona la carriera, per le armi.

Ken Loach, veterano regista inglese nato nel 1936, ha ottenuto la Palma d’Oro al miglior film, nello scorso Festival di Cannes proprio con questa pellicola, ambientata in Irlanda, negli anni immediatamente precedenti la guerra d’indipendenza del 1922. Nel 1990, Loach aveva già vinto il premio speciale della giuria di Cannes con L’agenda nascosta, che focalizza l’attività della polizia britannica contro l’IRA, nell’Irlanda del Nord. Nel 1995, Loach aveva diretto Terra e libertà, un film sui miliziani anarchici nella guerra civile spagnola, altro tema storico -a lui caro- come egli stesso confessa. Loach non ha mai vinto, invece, un premio BAFTA, assegnato al cinema del Regno Unito.

Conviene ricordare questi precedenti, perché così è più facile capire come mai la giuria del festival francese abbia concesso un premio così importante ad un film come Il vento che accarezza l’erba (suggestivo titolo desunto da un poema di Robert Dwyer Joyce, scrittore irlandese del secolo XIX). Si tratta di un melodramma molto ideologizzato, che racconta vicende note, già ispiratrici di vari racconti, reso in un modo piuttosto elementare, viscerale e sentimentalista, con scarse sfumature. Predomina una visione molto superficiale, alle volte veramente con toni retorici da pamphlet. In compenso, gli standard di qualità tecnica e interpretativa del film sono buoni.

Che il cinema di Loach -un marxista vetero-leninista- sia ideologico risulta evidente, tanto dai suoi film sulla working class britannica, come dalle sue incursioni nel cinema d’epoca. Questo film risponde perciò ai canoni del più puro cinema di propaganda (Loach se la prende con quello che lui chiama l’attuale “imperialismo anglo-nordamericano”). In tal senso, le sue grossolane semplificazioni appaiono in diretta continuità con i prodotti del cinema sovietico. Coloro che hanno percepito la superficialità e mancanza di rigore in Terra e libertà che contraddistingue il suo mediocre approccio all’anarchismo spagnolo, troveranno il solito Loach: né migliore, né peggiore. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

Pubblico: Adulti. Contenuti: V, S (ACEPRENSA)

I figli degli uomini

18/11/2006. Regista: Alfonso Cuarón. Sceneggiatura: Alfonso Cuarón, Timothy J. Sexton, David Arata. Interpreti: Clive Owen, Julianne Moore, Michael Caine, Chiwetel Ejiofor, Charlie Hunnam. 109 min. GB, USA. 2006. Giovani-adulti. (VD)

Il regista messicano Alfonso Cuarón aveva accettato di adattare liberamente il romanzo di P.D. James I figli degli uomini, attratto da una singolare profezia: un futuro prossimo venturo, l’anno 2027, con un umanità in pericolo di estinzione. Causa: l’infertilità delle donne.

Da un’idea cosi suggestiva, emerge una parabola di un avvenire niente affatto promettente, che presenta inquietanti similitudini con l’attuale panorama di flussi migratori e chiusure di frontiere, manifestazioni di radicali e movimenti no-global, con la disumanizzazione dell’uomo al centro della vicenda.

Il film prende le mosse da un personaggio grigio e intristito, cui si rivolge la ex-moglie, attivista di uno di questi gruppuscoli non governativi che anelano, in qualche modo, ad un mondo migliore. Con riluttanza si trasformerà in guardia del corpo di una donna che, in modo inatteso, rimane incinta. Questo responsabilità non cercata, restituirà loro, poco a poco, la speranza perduta.

Giustamente si può definire Cuarón come un narratore di racconti: La piccola principessa, Paradiso perduto (Great expectations), Harry Potter e il prigioniero di Azbakan… Perfino il sopravvalutato racconto iniziatico Y tu mamá también (Anche tua madre) rientra in questa sua prerogativa. I figli degli uomini è una storia semplice, che presenta uno scenario apocalittico di uomini stanchi e senza riferimenti, permettendogli di ritrovare la gioia del giorno per giorno.

Le lacrime silenziose iniziali, causate dalla morte violenta dell’uomo più giovane del pianeta, stigmatizzano una perfetta sintesi della situazione di rifiuto di amore e di valore alla vita. Si passa poi al vuoto esistenziale del protagonista, il laconico ed efficace Clive Owen, e all’occhiata nostalgica sul mondo hippie del personaggio di Michael Caine, coltivatore di marijuana che si lamenta del mondo, ma senza far molto per cambiarlo.

In alcuni momenti il film si direbbe ripetitivo, con le sue numerose scene di inseguimenti o di caos, ma la potenza prospettica del regista e del sua consueta spalla operativa -Emmanuel Lubezki- è tale, che la trama elementare sta in piedi. Speciale attenzione meritano le scene, in cui la visione di un bambino commuove coloro che un attimo prima si stavano combattendo (anche se trattasi di sentimento effimero) e della nave nella nebbia. José María Aresté. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani-Adulti. Contenuti: V, D (ACEPRENSA)

The lost city

18/11/2006. Regista: Andy Garcia. Sceneggiatura: Guillermo Cabrera Infante. Interpreti: Andy Garcia, Bill Murray, Inés Sastre, Dustin Hoffman, Steven Bauer. 143 min. USA. 2005. Giovani. (VSD)

L’Havana, fine anni ‘50, secolo scorso. I Fellove sono una famiglia della borghesia che si divide davanti alla situazione politica, provocata dalla dittatura di Batista. Don Federico, prestigioso professore di Diritto, confida in un’evoluzione pacifica verso la democrazia. Ma i figli minori, Ricardo e Luis, sostengono, ciascuno a modo suo, il movimento rivoluzionario diretto da Fidel Castro e dal “Che”. In mezzo, resta il figlio maggiore, Fico, proprietario del cabaret El Tropico, che cerca di mantenere una posizione neutrale, rischiando invece la pelle per aiutare gli uni e gli altri.

Certamente García si dilunga troppo, non controlla totalmente la progressione drammatica del film –che fluttua eccessivamente-, permette alcuni dialoghi eccessivamente artificiosi, nonché abusa sporadicamente del ricorso alla musica nella sua valenza simbolica. Ma è pur vero che trae il massimo profitto dal copione originale di Cabrera Infante -di grande spessore letterario- e nonostante le limitate risorse tecniche a sua disposizione. Garcia offre un ritratto attraente e ponderato dell’Havana fine anni ‘50, e dei diversi “tipi” esemplari che la costellavano.

Alcuni hanno criticato il tono quasi grottesco con cui il film ritrae la figura del dittatore Batista e dei suoi sanguinari sgherri, ma anche un mistificato “Che” Guevara. In realtà, la brutalità e stravaganza di questi personaggi è molto ben documentata. Tra questi estremi, ricchi di particolari aneddotici, il film sviluppa una riflessione serena, sincera e sentita sull’insostenibile disuguaglianza sociale che esisteva a Cuba, sull’ambigua influenza degli Stati Uniti -molto ben rappresentata dal mafioso Meyer Lansky (Dustin Hoffman) e dal sarcastico anonimo comico (Bill Murray)-, sul ruolo decisivo che ha avuto la classe media nella caduta di Batista, e infine, nel tragico inganno della rivoluzione castrista.

Tutto ciò è abilmente articolato nel copione, grazie al ricorso ad una storia di amore impossibile, con evidenti accenni a Casablanca e al Dottor Zivago. García ottiene una buona resa dal film, in virtù di una solida direzione di attori e di una messa in scena che si sforza costantemente di cavar fuori la massima espressività ad ogni inquadratura, ad ogni movimento di macchina da presa, ad ogni simbolismo onirico-musicale fornito dalle 40 e più canzoni che danno vita alla colonna sonora del film. Non sempre ci riesce, ma García merita un plauso per questo suo desiderio di coinvolgere lo spettatore nella storia, commuoverlo con la musica cubana e farlo meditare sulle sue riuscite riflessioni politico-sociali, che sempre emergono a fior di pelle in ciascuno dei personaggi. Anche dei più disumani. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani. Contenuti: V, S, D (ACEPRENSA)