Quel mostro di suocera

22/10/2005. Regia: Robert Luketic. Sceneggiatura: Anya Kochoff. Interpreti: Jennifer Lopez, Jane Fonda, Michael Vartan, Wanda Sukes, Adam Scott. USA. 2005. 101 min. Giovani-adulti (SD).

Charlotte, una laureata in storia dell’arte che si guadagna da vivere a Venice (California) come centralinista e portando i cani altrui a passeggio, dietro compenso, crede di aver trovato infine l’uomo della sua vita, un chirurgo. Ma dovrà guadagnarsi Viola, l’eccentrica madre del suo principe azzurro, nonché stella della tv in declino.

Ennesima commedia romantica generazionale, molto di moda in una Hollywood sempre avida di formule che fanno incasso. In questo caso, lo spunto viene attinto da due dozzinali film di Jay Roach (Ti presento i miei, Mi presenti i tuoi?) con Ben Stiller e Robert de Niro, nei panni dei protagonisti. In questo sottogenere, la trama ruota sull’incontro casuale di persone molte diverse (una disinvolta ispanica trentenne, da una parte, ed una altezzosa “wasp” settantenne, dall’altra), in occasione di imminenti nozze che imporrà loro il parentado politico.

Le istrioniche interpretazioni delle rivali, Jane Fonda (un ritorno al cinema, dopo 15 anni) e Jennifer López, sono efficaci, grazie anche alla fotografia di Russell Carpenter (Titanic), che cerca di esaltarne la recitazione. Ma il copione è privo di scintilla creativa, scadendo ad un cliché davvero povero. Come abituale, in questo tipo di commedie, al messaggio finale, che dà valore al matrimonio e alla famiglia, si arriva per sentieri di frivolezza, dove tutto sembra lecito, pur di intrattenere e far ridere: diventa noioso lo stereotipo dell’immancabile vicino di casa, nonché consigliere gay, per non parlare del solito ricorso a dialoghi triviali. Sofía López. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani-Adulti. Contenuti: S, D (ACEPRENSA)

Four brothers


22/10/2005. Regista: John Singleton. Sceneggiatura: David Elliot e Paul Lovett. Interpreti: Mark Whalberg, Tyrese Gibson, André Benjamin, Garrett Hedlund. USA. 2005. 109 min. Adulti. (VXS)

I figli adottivi di una brava signora di Detroit tornano a casa dopo l’assassinio della madre. Il californiano John Singleton (Shaft, 2 Fast 2 Furious) non si allontana un millimetro dal suo stile e, forse per questo, sorprende che l’erratico Festival di Venezia abbia accolto la première mondiale di questo film, -sfacciatamente commerciale- nella sua gratuita brutalità, talvolta camuffato da cinema di famiglia e sentimento. Con totale leggerezza si cerca di ottimizzare una trama, da spacciare come “film di rottura”: quella di due negri e due bianchi, affratellati nei loro propositi di vendetta. È una pena vedere magnifici attori, impegnati in una storia così mediocre, nonché la ancora più penosa immagine -che ne viene offerta- degli Stati Uniti. I rapporti di Hollywood con la vendetta sono da trattamento psichiatrico. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

Pubblico: Adulti. Contenuti: V, X, S (ACEPRENSA)

Paradise now

22/10/2005. Regia: Hany Abu-Assad. Sceneggiatura: Hany Abu-Assad, Bero Beyer e Pierre Hodgson. Interpreti: Kais Nashef, Ali Suliman, Lubna Azabal, Amer Hlehel, Hiam Abbass, Ashraf Barhoum, Mohammad Bustami, Mohammad Kosa, Ahmad Fares, Oliver Meidinger. Francia, Germania, Israele. 2005. 90 min. Giovani. (VD)

Due giovani volontari, Said e Khaled, preparano in territorio palestinese un attentato suicida, da realizzare in Israele. La fidanzata di uno di loro, figlia di un eroe della resistenza, cerca di dissuaderli.

Si tratta di un’interessante introspezione nel mondo personale di un palestinese suicida. Il puro terrorismo di matrice marxista si mescola a confuse promesse religiose, che i protagonisti non riescono a far proprie sul serio, nonché a mistificazioni borghesi di certi radicali libertari. Il film –di nazionalità palestinese, olandese, francese e tedesca- propugna la cessazione della violenza palestinese, come possibile fonte di una diversa politica israeliana. La messa in scena appare semplice -non per questo meno efficace- in un film fatto per lo più da personaggi che parlano poco, ma esprimono molto. La donna palestinese appare l’autentica vittima silenziosa di quello che succede ed è proprio il suo personaggio ad incarnare l’alternativa più umana. È stato il film che ha provocato le reazioni più diverse, all’ultimo Festival di Berlino. Juan Orellana. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani. Contenuti: V, D. (ACEPRENSA)

La tigre e la neve

22/10/2005. Regia:Roberto Benigni. Sceneggiatura: Roberto Benigni, Vincenzo Cerami. Interpreti: Roberto Benigni, Jean Reno, Nicoletta Braschi . Italia 2005. 118 min. Tutti.

Attilio (Roberto Benigni) è un poeta; insegna all'università e ha un sogno ricorrente: sposarsi con Vittoria (Nicoletta Braschi) , la donna che ama anche se non corrisposto. Vittoria va in Irak ( la seconda Guerra del Golfo è alle porte) per intervistare Fuad (Jean Reno),un famoso poeta . Quando Attilio viene a sapere che lei si trova in un ospedale di Bagdad gravemente ferita, riesce a raggiungerla superando mille difficoltà e a trovare le medicine che consentiranno di farla uscire dal coma. Ma sul più bello Attilio viene imprigionato per errore dagli americani e Vittoria non sa chi è stato il suo salvatore....

Roberto Benigni, è stato osservato da più critici, assomiglia sempre di più al grande Charlie Chaplin. Gli assomiglia per via di quel personaggio un po' clownesco dalla strana andatura e i vestiti fuori misura, gli assomiglia per la capacità di mescolare la comicità con il dramma. Ma le assonanze finiscono qui. Charlot è un vagabondo che vive ai bordi della legalità in una società affarista ed egoista, di cui ne critica debolezze e iniquità. L'Attilio-Benigni non polemizza invece con nessuno ma si trova anch'esso fuori della società e della logica del mondo, semplicemente perché è un poeta e crede nell'amore. Mai come nei film precedenti, Benigni utilizza la maschera del comico per trasmettere un messaggio così esplicito. In questa prospettiva La vita è bella (1997, tre premi Oscar nel 1999) ci appare quasi una prova generale di come una tragedia di portata universale (il genocidio degli ebrei) possa semplicemente venir stravolta, quasi sminuita se vista da una prospettiva superiore, il quel caso la bellezza della vita. Ma se ne la vita è bella il gioco poteva essere più facile perché i giudizi su quel periodo storico sono ormai consolidati, qui Benigni ha osato di più, infilandosi in mezzo alle polemiche ancora calde sulla guerra in Irak per trasfigurarla, questa volta in nome dell'amore e della poesia (tanti secoli fa, un altro personaggio, S. Francesco, aveva fatto lo stesso percorso verso l'oriente per farsi ricevere dal terribile Saladino, con nessuna altra arma che la Buona Novella...).Il suo atteggiamento è chiaramente pacifista (bellissimo il colloquio fra Attilio e il poeta Fuad davanti alla volta stellata di Bagdad che "perfino Allah scende talvolta sulla terra per poterla contemplare dal basso", ora sconvolta dalle scie dei razzi e delle bombe) ma è un pacifismo che non genera rancori verso nessuno: irakeni e americani ci appaiono nella loro tranquilla umanità, a volte spaventati, sempre gentili con gli altri, mai in preda all'odio o a spirito di vendetta.

L'amore di Attilio per Vittoria costituisce la sua energia vitale, la sua ragion d'essere come uomo e poeta. Di fronte a una situazione di coma che appare irreversibile in un ospedale senza più medicine, Attilio semplicemente ignora la realtà per come appare, la vede come la vede la sua speranza e tenta tutto ciò che c'è da tentare; perché senza di lei niente avrebbe più senso. Come non avrebbe più senso "tutta questa messa in scena del mondo che gira; portate via tutto, schiodate tutto, arrotolate il cielo, caricatelo su un camion con rimorchio. Spegnete la luce bellissima del sole, che mi piace tanto. Sai perché mi piace tanto? Perché mi piace lei illuminata dalla luce del sole. Portate via l'aria, la sabbia, il vento, i cocomeri che maturano al sole, la grandine, il pomeriggio, maggio, giugno, luglio, il basilico, il mare, le zucchine...".
Quando il dottore irakeno gli conferma che tutto ciò che era umanamente fattibile è stato fatto per salvare Vittoria e che non resta che altro che pregare Allah, Attilio si inginocchia, chiede scusa ad Allah di saper parlare solo italiano, di conoscere solo il Padre Nostro e si mette a recitarlo lì, accanto al letto di Vittoria. Solo Benigni poteva cinematograficamente sintetizzare, senza che per questo gli possano venir attribuiti messaggi di sincretismo che non ci sono, la necessità della preghiera, l'esistenza di un Dio che unisce tutti gli uomini e che supera i conflitti religiosi.

Un'altro messaggio universale che l'autore ci vuole trasmettere è quello della bellezza della poesia, che per lui è un modo di trasfigurare la realtà in base a ciò che si sente dentro: "Innamoratevi, sperperate allegria, trasmettete felicità" - dice ai suoi studenti. In un scena ad alta intensità drammatica Attilio viene fermato a un posto di blocco americano perché sospettato di trasportare esplosivi. Tutta la tensione si scioglie quando lui dichiara di essere un poeta, semplicemente un poeta in mezzo a una guerra. Anche gli animali rivestono un ruolo significativo nel film (un pipistrello, un cammello, una tigre, un canguro, due uccellini) ed anche nei loro confronti il linguaggio della poesia sembra avere la sua efficacia (si tratta di un altro riferimento a S. Francesco, neanche troppo implicito).

Il film, c'era da aspettarselo, è sorretto interamente da Benigni e Nicoletta Braschi, forse in modo maggiore che nel passato, appare come sua semplice spalla. Ci sono alcune lentezze nella parte centrale (alcune scene ripetute nell'ospedale irakeno), per fortuna interrotte dai repentini guizzi del nostro clown. Le scenografie sono in parte realistiche e in parte chiaramente ricostruite in studio, molto felliniane con la loro luna dipinta sullo sfondo, ma se Fellini cercava di ricostruire un'atmosfera onirica, qui Benigni ha sopratutto un messaggio da trasmettere e lo trasmette forte e chiaro. Franco Olearo. Per gentile concesione di FAMILYCINEMATV.

Valori/Disvalori: Benigni ci insegna la "follia dell'amore" che supera ogni ostacolo, che alimenta la speranza oltre ogni speranza, che rende teneri i cuori più induriti

Si suggerisce ai genitori la visione a partire da: Tutti

Giudizio tecnico: *** Sceneggiatura incalzante e piena di poesia. La regia, semplice e discreta, si concentra sopratutto sul personaggio di Attilio e mostra alcune lentezze nella parte centrale.

La fabbrica di cioccolato

1/10/2005. Regia: Tim Burton. Sceneggiatura: John August (dal romanzo di Roald Dahl). Interpreti: Johnny Depp, Freddie Highmore, David Kelly, Helena Bonham Carter, Noah Taylor, Missi Pyle. USA, UK, Australia. 2005. 115 min. Giovani.

C’è chi dice che si può giudicare un film dalle battute iniziali, dai primi venti minuti. Se questa affermazione –molto discutibile- fosse vera, la versione realizzata da Tim Burton (Il mistero di Sleepy Hollow, Ed Wood) del classico per l’infanzia di Roal Dahl, dovrebbe risultare quasi un capolavoro. Infatti, l’inizio è magnifico: dai primi secondi, in cui i titoli emergono da certe macchine minacciose che fabbricano cioccolatini, fino alle prime immagini della famiglia, povera ma incantevole, di Charlie. Anche se si tratta di adattare una favola, Burton riesce a coinvolgere lo spettatore, suscitando -insisto, questione di minuti- molti sentimenti: tensione e inquietudine per la ricerca del desiderato biglietto dorato, emozione davanti alla generosità e all’affetto della famiglia Bucket, nonché divertimento, non esente da qualche sfumatura di amara ironia, nella presentazione dei patetici bambini che accompagnano Charlie alla visita della fabbrica. Il film raggiunge il suo maggior impatto visivo, poco dopo: con l’ingresso nel territorio di Willy Wonka. Burton riesce a non deludere le immaginazioni più fervide, grazie a spettacolari scenografie fatte a mano che ricostruiscono la fantastica fabbrica di cioccolata.

È difficile mantenere tale livello di eccellenza troppo a lungo, e dopo questo promettente inizio, il film perde un po’ di slancio. La narrazione si fa più lenta e un po’ ripetitiva. Le successive squalifiche seguono lo stesso schema e sarebbe stato gradito se qualche bambino fosse stato espulso senza canzonetta. Una volta terminata la perlustrazione della fabbrica, il film riguadagna decisamente quota recuperando il livello iniziale. Per tutto il film, recita con vivacità un cast ben azzeccato, specie grazie a Depp e Highmore (Neverland-Un sogno per la vita).

Malgrado i limiti del film, che non arriva ad essere così ben rifinito come Big Fish, non c’è dubbio che il carismatico Burton era la persona giusta per adattare la favola di Dahl. Infatti, quale ammiratore dello scrittore, non è la prima volta che Burton trae spunto dalla sua opera. Da produttore, ne aveva già adattato il racconto: James e la pesca gigante.

Forse per questa sintonia con Dahl, Burton ha saputo cogliere in modo fedele lo spirito originario e, al contempo, ha saputo aggiungervi alcune caratteristiche tipiche del suo cinema –fantasia, ironia, tenerezza verso i personaggi ed una certa propensione all’assurdo- con tale naturalezza, che ci sono momenti in cui si esita, se attribuirne il merito al romanzo, o invece al copione cinematografico. Per di più, quando uno rilegge il racconto, nota con stupore due innovazioni apportate dal film, che da un parte si inventa un passato per il papà di Willy Wonka e, dall’altra, introduce un discorso di Charlie a difesa dell’unità della famiglia, ben al di sopra di qualsiasi valore venale. Sono due pennellate d’artista, molto vincolate alla biografia di Burton che, invece di diluire il messaggio del racconto, vi aggiunge forza: è un classico esempio di quanto vale un buon adattamento. Ana Sánchez de la Nieta. ACEPRENSA.

Vita da strega

1/10/2005. Regista: Nora Ephron. Sceneggiatura: Delia e Nora Ephron. Interpreti: Nicole Kidman, Will Ferrell, Shirley MacLaine, Michael Caine, Jason Schwartzman, Kristin Chenoweth, Heather Burns. USA. 2005. 102 min. Giovani. (SDF)

I telefilm sono diventati così influenti da rappresentare un punto di riferimento per trarvi varie biografie, ritratti convenzionali e film. Cosi avviene anche, ma senza successo, per Vita da strega, in cui le sorelle Nora e Delia Ephron fanno rivivere -al giorno d’oggi- il popolare telefilm degli anni Sessanta, creato da Sol Saks.

Un’emittente televisiva che si accinge a realizzare una nuova versione del telefilm, contratta a capo del programma Jack, celebre attore ormai in declino. Insicuro e vanitoso, Jack si dà da fare perché la parte della protagonista sia affidata ad una sconosciuta, incapace di eclissarlo. Ed è cosi, che selezionano Isabel, ragazza apparentemente ingenua, ma in realtà un’autentica strega, incline a rinunciare alla magia, pur di rifarsi una vita da donna normale.

L’impostazione del copione sembra sufficientemente coinvolgente. Altrettanto dicasi per un cast di alto livello ed una regista-sceneggiatrice efficace, responsabile di aver portato sullo schermo belle commedie romantiche come Insonnia d’amore e C’è post@ per te. Il risultato invece è mediocre: da addebitarsi ad un copione rudimentale, alle volte pure grossolano, che termina in una soluzione pasticciata. Questi difetti risultano ancora più calcati dal comico Will Ferrell, autore di un’interpretazione istrionica, che indebolisce l’eccellente lavoro del resto del cast. Penalizza soprattutto Nicole Kidman, sensazionale anche come attrice da commedia. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani. Contenuti: S, D, F. (ACEPRENSA)

Dear Wendy

1/10/2005. Regia: Thomas Vinterberg. Sceneggiatura: Lars Von Trier. Interpreti: Jamie Bell, Bill Pullman, Michael Angarano, Danso Gordon, Novella Nelson, Chris Owen, Alison Pill. Dinamarca, Francia, Germania, UK. 2005. 101 min. Adulti. (VD)

Le radici della violenza negli Stati Uniti sono state esplorate, con alterno esito, da registi quali: Quentin Tarantino (Pulp Fiction), Oliver Stone (Assassini nati), Martin Scorsese (Gangs of New York), Michael Moore (Bowling for Colombine) Lars Von Trier (Dancer in the dark, Dogville, Manderlay).

L’insistenza di quest’ultimo sul tema, ha coinvolto anche il regista danese Thomas Vinterberg, autore di Festen (Festa in famiglia), uno dei film più duri del gruppo Dogma 95 (che i creatori hanno dato per finito), ma anche capace di raccogliere i maggior consensi.

Dear Wendy racconta la storia di Dick, giovane introverso che vive a Estherslope, nel sud degli Stati Uniti. Un giorno trova una piccola rivoltella, cui affibbia il nome Wendy, per la quale sente un fascino sempre più malsano. Organizza poi, con altri ragazzi e ragazze un po’ particolari, un club segreto che tenta di coniugare pacifismo e passione per la armi di fuoco. Ma tale utopica pretesa si scontra con le debolezze di ciascuno e le inerzie della decadente società.

Talvolta, sembra affiorare la riflessione morale sulla relazione tra violenza, immaturità e basse passioni. Ma si sviluppa in una storia portata ad un tale estremo, che la mania per le armi trascende in ossessione paranoica ed erotica. Tale impostazione, pregna di radicale fatalismo, rende la storia estranea allo spettatore, e gli artificiosi conflitti dei personaggi fanno da pretesto, per meglio sconvolgerlo nelle violentissime scene finali. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.

Pubblico: Adulti. Contenuti: V, D. (ACEPRENSA)

Good night, and good luck

1/10/2005. Regia: George Clooney. Sceneggiatura: George Clooney e Grant Heslov. Interpreti: David Strathairn, George Clloney, Jeff Daniels, Frank Langella. Usa. 2005. Durata: 90'. Genere: Drammatico. Tutti.


Nel 1953, agli albori della televisione, l’integerrimo giornalista Edward R. Murrow, conduce sulla CBS diversi programmi di informazioni. Quando, sull’onda delle prevaricazioni commesse dal senatore Joseph McCarthy con il Comitato per le attività antiamericani, un pilota della marina militare viene cacciato perché considerato un “pericolo alla sicurezza nazionale”, Murrow decide di dedicare una puntata del suo show alla vicenda. La situazione diventa subito bollente, tra le pressioni dei dirigenti dell’emittente e le resistenze degli sponsor; ma Murrow, affiancato da validi collaboratori, tiene duro e, grazie ad un esercizio sempre limpido della professione giornalistica, riesce a mettere alle strette McCarthy, di lì a poco bloccato dallo stesso Governo.

La seconda regia di George Clooney, Good Night and Good Luck, è una pellicola rigorosa, in grado di gratificare un pubblico intelligente e curioso con una precisa rievocazione di un passaggio “eroico” nella storia del giornalismo televisivo (e non), dimostrando mestiere e gusto in un quasi-documentario in bianco e nero che attinge a piene mani dal materiale di repertorio per dare consistenza al proprio punto di vista (la verità come arma per vincere le prevaricazioni).

Bersaglio della virtuosa indignazione di Clooney e soci sono da una parte i politici che giocano con le paure della gente per restringere le libertà civili (allora il senatore McCarthy con la minaccia comunista, oggi, non si fa fatica ad immaginare chi sia il destinatario delle critiche) dall’altra il neonato sistema televisivo. Quest’ultimo, sotto le pressioni degli sponsor, corre costantemente il rischio di venir meno alla propria vocazione lasciando spazio unicamente a programmi di puro intrattenimento. Anche in questo caso i paralleli con l’oggi si sprecano.

Per portare avanti queste giustissime istanze il regista e sceneggiatore sceglie una forma narrativa minimalista, che rinuncia a raccontare il personaggio Murrow più privato a favore della sua battaglia e preferisce mettere in scena le tensioni politiche ed economiche, lasciando poco spazio ai loro risvolti più personali (che emergono unicamente con il suicidio di un giornalista perseguitato e le manovre di due collaboratori di Murrow, sposati contro il regolamento della CBS).

Si sente talvolta la mancanza di un approfondimento sulle motivazioni del protagonista (per capire da dove nasce la sua integrità professionale e umana) e il percorso disegnato privilegia una prospettiva quasi freddamente rievocativa piuttosto che incoraggiare un coinvolgimento sulle scelte, anche difficili, che Murrow compie.

La pellicola, così, rischia di essere di quelle che “ non possono non piacere” più per un dovere morale che per un valore complessivo. Appesantito talvolta dall’uso del materiale di repertorio, totalmente concentrato sui “fatti” così da scivolare via non tanto sul privato dei personaggi (scelta del tutto legittima), ma proprio sulla radice delle loro azioni, il film rischia di essere apprezzato da un pubblico ristretto facendo luce su un pezzo di storia che forse tornerà nel cassetto delle memorie perdute nel giro di pochi mesi. Luisa Cotta Ramosino. Per gentile concesione di FAMILYCINEMATV.

Elementi problematici per la visione: Nessuno

Valori/Disvalori: La TV deve istruire e illuminare, altrimenti sono solo fili e luci in una scatola" un film di liberismo autentico.

Si suggerisce ai genitori la visione a partire da: Tutti

Giudizio tecnico: ***. Il regista e sceneggiatore sceglie una forma narrativa minimalista, che preferisce mettere in scena le tensioni politiche ed economiche, così da scivolare via non tanto sul privato dei personaggi , ma proprio sulla radice delle loro azioni. (FAMILYCINEMATV)