Vanity fair - La fiera della vanità

19/3/2005. Regia: Mira Nair. Sceneggiatura: Matthew Faulk, Mark Sheet, Julian Fellows. Interpreti: Reese Witherspoon, Gabriel Byrne, Romola Garai, Jonathan Rhys-Meyers, James Purefoy. 140 m. USA. 2004. Adulti.

Vanity Fair (del romanziere W. M. Thackeray) racconta, con humour, realismo e crudeltà, i ripetuti tentativi della sfortunata Becky Sharp di progredire sulla scala sociale. Becky è orfana, figlia di una corista francese e di un pittore alcolizzato. Educata in un orfanotrofio di Londra, ne uscirà trasformata in istitutrice, ma per di più, con l’idea di trionfare in società. A tal fine, non esita ad appellarsi a tutte le risorse proprie del suo sesso e del suo ingegno.

La regista Mira Nair (Monsoon Wedding), come Thackeray, è nata in India. Ed è proprio questo paese a far da sfondo ideale a tutto il film, grazie all’influenza esercitata sull’immaginario degli inglesi del XIX. Mira Nair ha ammorbidito, con pennellate di humour, l’intollerabile cinismo e/o stupidità dei personaggi originali, specialmente quello di Becky Sharp, ambiziosa, ma non cattiva, i cui fallimenti si devono addebitare, per lo più, al suo buon cuore. Ma il pregio manifestato dal film emerge specialmente nel modo di evidenziare le riserve di ilarità di cui è capace un buon salotto, nonché i dialoghi cinici ma pieni di humour della classi abbienti, che includono la spietata indifferenza per la sorte altrui, con frasi come: “Pensavo fosse un’arrampicatrice sociale, ma vedo che è davvero un’alpinista”.

La principale difficoltà del film risiede nel tentativo di raccontare la maggior parte del contenuto di un voluminoso romanzo che si sviluppa per quasi mezzo secolo. Impresa assai più indicata ad una miniserie televisiva, che non ad un film. Questo scoglio viene superato, soltanto in parte, grazie allo splendido lavoro degli attori. Vanity Fair si trasforma in un’opera interessante, seppure assai inferiore a Barry Lindon, l’altra opera di Thackeray riproposta su grande schermo. Fernando Gil-Delgado. ACEPRENSA.

Hotel Rwanda

19/3/2005. Regia: Terry Gorge. Sceneggiatura: Terry Gorge, Keir Pearson. Interpreti Don Cheadle, Sophie Okonedo, Nick Nolte, Joaquin Phoenix, Desmond Dube, Antonio David Lyons, Jean Reno. 121 m. Canada, Italia, Gran Bretagna, Sudafrica. 2004. Giovani.

Il tedesco Oskar Schindler, l’italiano Giorgio Perlasca, lo spagnolo Angel Sanz Briz… è una fortunata proprietà del bene quella di continuare ad incarnarsi in volti di protagonisti dai lineamenti diversi, e di razza diversa. Sono questi eroi, alle volte sconosciuti, che disarmano gli stupidi ragionamenti del peggior cinismo con la forza, semplice ma irresistibile, della bontà umana. Hotel Rwanda disegna, con colori intensi, un altro di questi volti eroici, questa volta nero come la fiumana di odio e pazzia cui si è opposto. Questo film, che aspirava a tre Oscar poi mancati, ricrea la storia reale di Paul Rusesabagina, un hutu cristiano, gestore di un albergo di lusso a Kigali. Con coraggio, astuzia e l’aiuto della moglie, di etnia tutsi, Rusesabagina, è riuscito a salvare più di 1.200 rifugiati da morte sicura, durante il genocidio a danno dei tutsi, verificatosi nel 1994. Nell’eroica impresa troverà valido sostegno in un coraggioso fotografo di guerra statunitense –che registrò le prime immagini dei massacri-, un colonnello canadese delle forze di pace dell’ONU –capace di rischiare vita e carriera pur di proteggere Paul e i suoi rifugiati- e una volontaria della Croce Rossa, trovatasi coinvolta in eventi più grandi di lei.

Uno degli sceneggiatori di Nel nome del padre e regista di Una scelta di amore, il nordirlandese Terry Gorge ha molto ben realizzato l’eccellente copione, che intreccia diverse storie a pathos crescente e, al contempo, esalta la religiosità del protagonista, l’affetto per la propria famiglia, l’amore al lavoro ben fatto, nonché la sua incrollabile solidarietà con tutti. Inoltre, Gorge utilizza la cinepresa con coinvolgente veridicità –senza nascondere la crudeltà del genocidio, ma senza compiacersene. Dirige infine, con maestria, tutti gli attori, specialmente Don Cheadle, che realizza la miglior interpretazione della carriera. Rimane una vibrante testimonianza cinematografica, talvolta altamente emotiva, impressa su una delle ultime tragedie del secolo XX, in cui si narra uno di quegli atti eroici che permettono di continuare a guardare con fiducia nel genere umano. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.

Pubblico: Adulti. Contenuti: V+, S, D, F. Qualità Tecnica: *** (MUNDO CRISTIANO)

Lemony Snicket's - Una serie di sfortunati eventi

19/3/2005. Regista: Brad Silberling. Sceneggiatura: Robert Gordon. Interpreti: Jim Carrey, Emily Browning, Liam Aiken, Meryl Streep, Timothy Spall, Catherine O’Hara. 113 m. USA. 2004. Giovani.

Originale adattamento di racconti di Lemony Snicket sui fratelli Baudelaire: Violet, Klaus e la piccola Sunny. Costoro, dopo aver perso i genitori in un misterioso incendio, devono vivere con l’orribile zio, il conte Olaf, un petulante e falso personaggio che non desidera altro che la morte dei nipoti, per poter così ereditare la fortuna loro destinata. Quando si manifesta che Olaf non è il tutore ideale, i ragazzi andranno a vivere con parenti diversi: difficile indovinare chi di loro è il più eccentrico.

Brad Silberling, formatosi come regista televisivo, è autore di film insipidi, più o meno accettabili (Casper, City of Angels, Voglia di ricominciare). Diciamolo chiaro: non è un tipo brillante. Tuttavia, in quest’opera ricorre ad una storia simpatica, piena di passaggi esilaranti fin dall’inizio, caricatura di racconti tradizionali: un po’ sullo stile di Shreck. Prendendo spunto da Lemony Snicket, l’autore dei racconti, smonta i luoghi comuni delle fiabe infantili con sottigliezza, dotando la storia di un solido ancoraggio. Silberling sa inoltre presentare una galleria di bizzarri personaggi, che farebbero le delizie di Tim Burton, con eccellente buon umore. Sa poi esaltare la fantasia, concependo un incredibile mondo alternativo: spettacolare la fotografia di Emmanuel Lubezki, ma anche la direzione artistica, i costumi e le incredibili capacità di trucco di un corretto Jim Carrey, nelle sue diverse caratterizzazioni.

Come nella serie su Harry Potter, è un peccato vedere relegati grandi attori a ruoli esigui. Il primo esempio è Dustin Hoffman, nella veste di critico di teatro. Ma neanche Timothy Spall o Meryl Streep hanno poi maggior visibilità. I ragazzi, Emily Browning e Liam Aiken si limitano al loro dovere. José María Aresté. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani. Contenuti: V--. Qualità Tecnica: *** (MUNDO CRISTIANO)

Hitch - Lui sì che capisce le donne

19/3/2005. Regista: Andy Tennant. Sceneggiatura: Kevin Bisch. Interpreti: Will Smith, Eva Mendes, Kevin James, Amber Valletta, Michael Rapaport, Adam Arkin, Julie Ann Emery, Camper Andreas. 113 m. 2005. Giovani-Adulti.

Will Smith interpreta Alex Hitch, il “Dottor Conquista”, l’uomo che può aiutarti ad ottenere la donna dei tuoi sogni. Si tratta di un simpatico ed egocentrico personaggio, convinto di conoscere come nessuno le donne e i loro bisogni, e pronto a condividere ad altri mortali tali sue cognizioni. Sia chiaro che Hitch è una brava persona: si limita ad agevolare la strada ai maschi bisognosi di una piccola spinta per conquistare il cuore dell’amata. Mai aiuterebbe un libertino a profittare di una donna.

Quando inizia la storia, Hitch ha due problemi. Il primo è aiutare Albert (Kevin James) –un ciccione, imbranato e timido economista- che vuol far centro nel cuore di Allegra Cole (Amber Valletta), giovane e bella miliardaria. E il secondo, conquistare lui stesso Sara Melas (Eva Mendes), cinica giornalista da pettegolezzo, decisa a indagare sulla consistenza della leggenda del “Dottor Conquista”.

Non bisogna essere geni per indovinare cosa potrà mai accadere nel film, né come andrà a finire. È chiaro che Hitch è un prodotto commerciale, destinato a riempire un vuoto nella programmazione annuale nordamericana (San Valentino), per poi essere distribuito ovunque. Trattasi di commedia romantica, ben realizzata, e soprattutto ben interpretata. Per una volta Will Smith non recita sé stesso, ma costruisce un personaggio accattivante, insieme ad un grandissimo Kevin James. Malgrado qualche lieve caduta di tono, il film è sempre positivo e le trovate, divertenti. Solo l’ultima parte appare più debole ma, visto che l’unico obiettivo è trascorrere momenti distensivi, la casa produttrice ha perfino superato le attese. Fernando Gil-Delgado. ACEPRENSA.

La vita è un miracolo

5/3/2005. Regista: Emir Kusturica. Sceneggiatura: Ranko Bozic, Emir Kusturica. Interpreti:Slavo Stimac, Natasa Solak, Vesna Trivalic, Vuk Kostic, Aleksandar Bercek, Stribor Kusturica. 155 m. Repubblica Yugoslava, Francia 2004. Adulti.

Emir Kusturica (Sarajevo, 1954) ritorna al genere del delirio onirico. Narra la storia di una famiglia bosniaca composta dall’ingegner Luka, dalla moglie Jadranka e da Milos, il figlio patito di calcio, che sogna di giocare nel Partizan di Belgrado. Nel 1992, allo scoppio della guerra, la famiglia abbandona la città per abitare in una piccola ed isolata stazione feroviaria di montagna, cercando di tirare avanti. Un progetto di linea ferroviaria per incrementare il turismo locale dà il via ad una sofisticata storia d’amore in tempo di guerra, che si muove al ritmo della musica stile No Smoking Orchestra, il gruppo musicale dove Kusturica suona il basso.

Il tono eccessivo, tra Lubitsch e Capra, si addice al regista di Underground, che tende a indugiare troppo nell’assurdo. Il film, girato con soli 8 milioni di dollari in splendide località della Serbia, perde equilibrio e manca di respiro per l’eccessiva pretesa -e forzatura- di riproporre in modo un po’ folle un dilemma shakespeariano, fortemente balcanizzato, talora intriso di inutile ed eccentrica procacità. Magnifici attori danno vita a personaggi ben delineati, seppure inclini ad un improprio istrionismo. Il ricorso allusivo ad animali e al materiale ferroviario, diverte ma tende al noioso, per l’eccessiva insistenza sulla metafora che prende di mira l’ostinato e stupido contegno di chi si lascia accecare dall’odio, dal rancore e dall’ambizione. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

Neverland - Un sogno per la vita

5/3/2005. Regia: Marc Forster. Sceneggiatura: David Magee. Interpreti: Johnny Depp, Kate Winslet, Julie Christie, Radha Mitchell, Dustin Hoffman, Freddie Highmore. 113 m. Regno Unito, USA. 2004. Giovani.

Marc Forster, il regista svizzero-tedesco acclamato per il duro e radicale Monster’s Ball, cambia registro per raccontarci una storia sensibile e lacrimogena. Neverland – Un sogno per la vita è una approssimazione emotiva e intimista alla figura di James M. Barrie, lo scrittore scozzese creatore del personaggio di Peter Pan. Johnny Depp, Kate Winslet, Julie Christie e Dustin Hoffman sono i responsabili di proporzionare i volti con grande solvenza a questa storia dolce e sentimentale. L’argomento si centra nel rapporto che Barrie ha avuto con la famiglia Llewelyn Davies: quattro bambini e una bella mamma vedova. Uno di questi figli, Peter, sará all’ origine della famosa storia del bambino che non voleva crescere.

Il film ha un disegno molto curato e un trattamento molto accademico, con un studiato dosaggio dei sentimenti, sottolineato da una buona colonna sonora che ha meritato l’Oscar. La fantasia è una delle chiavi de la messa in scena, che integra immaginazione e realtà come se l’una fosse il prolungamento dell’altra. Forse la cosa più interessante è comprovare come lo spettatore, vedendo un film biografico, ha la sensazione che la storia si somiglia molto a quella di Peter Pan. Il carattere britannico e vittoriano è molto ben riuscito, con un indovinato senso ironico e senza esagerare in niente, neanche la rottura matrimoniale.

Il punto fragile è la propria proposta di Barrie, che il film fa suo, e che consiste nel fuggire del dolore della vita con una overdose d’immaginazione e fantasia. Si tratta di una proposta scapista, che si rifiuta a guardare direttamente la realtà, e che interpreta erroneamente la massima: “Se non vi fatte come bambini…” In qualsiasi caso, è un film ricco e interessante. Juan Orellana. ACEPRENSA.

Shark Tale

5/3/2005. Regia: Vicky Jenson, Bibo Bergeron, Rob Letterman. Sceneggiatura: Michale J. Wilson, Rob Letterman. Cartoni animati. 90 m. USA. 2004. Giovani.

DreamWorks Animation ha avuto due anni di grandi successi, vincendo la partita contro i potenti avversari della Disney, la Fox e la Warner. La chiave è stata nel efficace stilo parodico che ha sviluppato nelle due parti di Shreck. Adesso ripete la formula con Shark Tale, una specie di versione teppista di Alla ricerca di Nemo, che sta avendo un enorme successo negli Stati Uniti.

Ambientata in una multicolore città del corallo, racconta la singolare avventura di Oscar, un pesciolino simpaticone, divertente e un po’ frivolo, che desidera abbandonare il suo modesto lavoro di pulitore di balene, trionfare e vivere alla grande nella zona più chic de la città. I suoi desideri si compiono quando, per un equivoco, si sparge la voce che ha ucciso da solo uno squalo. Oscar incoraggia la leggenda con l’aiuto di Lenny, un sensibile squalo vegetariano scappato alla possessiva pressione del padre, Don Lino, il mafioso lider degli squali che imperversano nella zona. Ma durante il processo, Oscar mette in pericolo i rapporti con la sua fidanzata, Angie, una carinissima pesce angelo.

Durante un’ora, la successione di battute di humour parodico mantengo vivo il film, agilmente montato e con un’animazione in 3D immaginativa e espressiva. Ma il cocktail di barzellette attuali, omaggi filmici e canzoni moderne non sorprende, perde quota nel terzo finale e diventa topico dal punto di vista drammatico. In ogni caso, sono difetti lievi che, anche si ribassano un po’ la qualità artistica del film, non ridonano il valore come intrattenimento. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.

Sideways - In viaggio con Jack

5/3/2005. Regista: Alexander Payne. Sceneggiatura: Alexander Payne. Interpreti: Paul Giamatti, thomas Haden church, Sandra oh, Virginia Madsen, Marylouise Burke, Jessica Hecht, Missy Doty Alysia Reiner. USA. 2004. Adulti.

Questo road movie, un specie di Thelma and Lousie in versione maschile che aspirava a cinque Oscar, ha vinto quello del copione adattato. Miles (un professore che vuole diventare scrittore e è divorziato da un anno) e Jack (un attore di televisione in declino che è vicino ad sposarsi con la figlia di un magnate immobiliari) intraprendono un viaggio enologico per la zona vitivinicola della California. L’idea è prendere un po’ d’aire, assaggiare i vini, e giocare golf per dire addio al celibato di Jack.

Alexander Payne (Nebraska, 1961), regista di A proposito di Schmidt, adatta un romanzo di Rex Pickett nel quale il vino agisce come catalizzatore di una storia tragicomica su due uomini molto diversi che, decisi a compartire qualcosa, gareggiano in patetismo. Miles, sensibile e sognatore, è depresso per gli insuccessi personali e professionali. Per il viveur Jack, quello che non passa per il basso ventre lo sconcerta e sembra che la vicinanza del matrimonio non cambierà ne poco ne molto la sua iscrizione al edonismo militante. Nelle loro avventure vitivinicole conosceranno due donne mature che se n’intendono di vino e di dolori.

Quello che inizialmente non uscirebbe del territorio della commedia sboccata (ce ne sono un buon numero di situazioni pesanti e de dialoghi zozzi) si convertirà grazie a un buon copione e una curata estetica (la pianificazione è molto buona) in un film con molte situazione umoristiche, alcune molto divertenti, altre piuttosto rozze). Tra una coppa e altra si sottolinea la tremenda solitudine de questi esseri appassiti e alla deriva, che fuggono de loro stesi facendosi compagnia. Dei attori magnifici con una notabile capacita umoristica compongono un film che, con meno rozzezze e meno metraggio, sarebbe risultato molto meglio. Alberto Fijo. ACEPRENSA.