Triple agent

18/06/2005. Regia e sceneggiatura Eric Rohmer. Interpreti: Katerina Didaskalu, Serge Renko, Cyrielle Clair, Amanda Langlet, Emmanuel Salinger. 115 min. Francia. 2004. Giovani.

Nel 1937, un russo bianco esiliato a Parigi, capo di veterani in lotta contro i bolscevichi, scompare misteriosamente. Sembra sia stato vittima di una spia, dedita al doppio gioco, poi datasi alla fuga. Il caso non è mai stato chiarito. Due anni dopo La nobildonna e il duca, Eric Rohmer si appoggia a questo evento accaduto, per ricreare in Triple agent un altro capitolo di storia francese: quello relativo agli inquietanti anni che hanno preceduto la II Guerra Mondiale. Si tratta di un’epoca che Rohmer ha vissuto in prima persona, da lui ricostruita con molta cura. La storia inizia nel 1936, quando il Fronte Popolare vince le elezioni in Francia, in Spagna scoppia la guerra civile, mentre tutti si domandano cosa fará Stalin. Fiodor, marito esemplare, nonché giovane generale dell’esercito zarista e spia dei russi bianchi in esilio a Parigi, potrebbe essere un agente che fa il doppio… o triplo gioco. La malattia della moglie, Arsinoe, darà impulso drammatico all’azione.

In Triple agent, Rohmer ritaglia la vita quotidiana di una coppia di emigranti, ancora giovani, senza figli, che incarnano il mondo degli anni Trenta. Lei è greca, pittrice e casalinga, aliena alla politica. Lui è russo, agisce come spia ed è affascinato dal potere dell’intrigo e dei servizi segreti. Lei è un’autentica eroina rohmeriana, un po’ distaccata ed eterea, che si trasforma in tragico personaggio, in lotta con un mondo che non comprende. Lui, è il soggetto più enigmatico mai creato da questo regista: giungiamo a saperne tutto, tranne cosa pensi e da che parte stia. Attraverso la coppia, e alcuni altri dettagli -soprattutto i notiziari dell’epoca sapientemente utilizzati-, Rohmer ricostruisce quell’ambiente, caratterizzato da continui dibattiti tra destra e sinistra, fascismo e comunismo, pittura e politica. La messa in scena è eccessivamente sobria, quasi una cartolina d’epoca. Il tono, seppure molto discorsivo, risulta emotivamente coinvolgente. Fernando Gil-Delgado. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani. Contenuti: -. Qualità: **** (MUNDO CRISTIANO)

Being Julia - La diva Julia

18/06/2005. Regista: István Szabó. Sceneggiatura: Ronald Harwood. Interpreti: Annette Bening, Jeremy Irons, Shaun Evans, Michael Gambon, Catherine Charlton. 105 min. Canada-USA-Ungheria-GB. 2004. Adulti.

L’attrice nordamericana Annette Bening, premiata all’ultimo festival cinematografico di San Sebastian, offre un indimenticabile recital interpretativo in questo vibrante film del regista ungherese István Szabó (Mephisto, Il colonnello Redl). Szabó adatta, con la sua abituale perizia, un romanzo del caustico Somerset Maugham sul mondo del teatro, a Londra, ambientato nell’anteguerra dell’ultimo conflitto mondiale. Lo sceneggiatore, Ronald Harwood (Il pianista, Addio, Mr. Harris), prestigioso autore teatrale sudafricano settantenne, risiede a Londra dal 1951.

Diventa inevitabile il paragone con Eva contro Eva, data l’impeccabile resa del film. Ma i momenti brillanti –come il clima finale- contrastano con l’insistente indugio sulla vita sessuale della protagonista, filtrata con cinismo snobistico, assai oltre a quanto descritto in Somerset Maugham (Szabò calca la mano sulla promiscuità frivola di certi personaggi che pensano soltanto al successo). Rimane cosi scompensato l’equilibrio, sospeso fra dramma e commedia, a differenza di quanto ottenuto dal capolavoro di Joseph L. Mankiewicz.

Pubblico: Adulti. Contenuti: X, D, F: Qualità: *** (MUNDO CRISTIANO)

Wimbledon

18/06/2005. Regia: Richard Loncraine. Sceneggiatura: Adam Brooks, Jennifer Flackett & Mark Levin. Interpreti: Kirsten Dunst, Paul Bettany, Sam Neill, Jon Favreau, Austin Nichols, Nikolaj Coster-Waldau. 98 min. Gran Bretagna, Francia. 2004. Adulti.

Il tennista inglese Peter Colt, nemmeno tra i primi cento della classifica ATP, ha superato i trent’anni e si appresta a giocare il suo ultimo torneo di Wimbledon. A sua volta, la ventenne statunitense Lizzi Bradbury aspira a vincere il torneo. Sembrerebbe un’altra commedia romantica, superficiale e un po’ grossolana, sullo stesso cliché delle due avventure cinematografiche di Bridget Jones, scritte da uno degli sceneggiatori. Questo è vero, ma solo in parte. Infatti, storia convenzionale a parte, ecco apparire alcune grossolane concessioni. Inoltre, la regia dell’inglese Richard Loncraine (Riccardo III), abbastanza scontata, scende di livello nelle rare partite di tennis, girate senza vibrazione epica. Comunque, è pur vero che il risultato complessivo risulta gradevole a vedersi, offre numerosi gags divertenti e propone un attraente modello sentimentale e familiare, marcato da senso di responsabilità, dalla donazione all’altro, ed esaltazione della maternità, come elemento essenziale. In tal senso, il film trae beneficio della sua sfacciata somiglianza con Notting Hill, sia per l’argomento trattato che per la struttura di fondo. È vero che i sceneggiatori di Wimbledon non hanno il talento di Richard Curtis; anche il regista, Richard Loncraine, è decisamente inferiore a Roger Michell. Kirsten Dunst e Paul Bettany mancano, a loro volta, del carisma di Julia Roberts e Hugh Grant. Ma tutti fanno il loro dovere: ed ecco, che questa divertente commedia diventa piacevole, anche se avrebbe potuto essere girata assai meglio: con più rispetto dell’intelligenza e del buon gusto dello spettatore. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.

Pubblico: Adulti. Contenuti: X, D, F. Qualità: ** (MUNDO CRISTIANO)

Per amare Carmen (Carmen)

18/06/2005. Regista Vicente Aranda. Sceneggiatura:: Joaquín Jordá, Vicente Aranda. Interpreti: Paz Vega, Leonardo Sbaraglia, Jay Benedict, Antonio Dechent, Joan Crosas, María Botto, Joe McKay, Josep Linuesa. 119 min. Spagna. 2003. Sconsigliato.

In una Siviglia di inizi Ottocento, una venditrice di sigari, di facili (fin troppo) costumi e con fama di strega, fa innamorare di sé, alla pazzia, un pio sergente dell’esercito reale. Quest’attrazione fatale condurrà i personaggi alla tragedia. Il romanzo di Merimée, è solo il pretesto con cui Vicente Aranda (Amanti, Giovanna la pazza) ripropone senza ritegno tutte le sue morbose ossessioni sessuali, fino al punto che il film diventa un prodotto pornografico. Se non bastasse, affronta questi problemi inserendoli in temi irriverenti di carattere pseudo-religioso, ottenendone una minestra ampiamente indigesta. La storia si altera fino ad assumere i contorni di una greve e banale telenovela di passioni scatenate, trasformando i personaggi in stupidi fantocci – descrivendo una specie di Forrest Gump che spasima per una specie di Mata Hari-, con il risultato di scatenare l’istrionismo degli attori e svuotare di significato il brillante sviluppo visivo e musicale del film. . Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.

Danny the dog

18/06/2005. Regista: Louis Leterrier. Sceneggiatura : Luc Besson. Intérpretes: Jet Li, Morgan Freeman, Bob Hoskins, Kerry Condon, Vincent Regan, Dylan Brown, Tamer Hassan, Michael Jenn, Phyllida Law. 102 min. Francia, Usa, GB, Hong Kong. 2005. Adulti (VXD).

Ricompaiono Besson, sceneggiatore e produttore, e Leterrier, regista, già binomio colaudato in The Transporter. Il film s’inserisce nello sforzo, operato qui da Besson, di liberare il cinema francese dalla concorrenza di Hollywood e dei prodotti “hollywoodiani”, tuttora leader del mercato mondiale. Lo schema è simile a Leon, il miglior titolo di Besson. Danny the Dog è un giovane, tirato su quasi come un mastino feroce: da animale pronto ad uccidere, al semplice gesto del suo crudele proprietario. Apparentemente spogliato della sua umanità, conserva ancora una parvenza d’innocenza, che affiora al momento di conoscere un personaggio sensibile, un accordatore di pianoforte, cieco, e la sua adorabile figlia adottiva, un’adolescente. Anche se l’inizio fa temere il peggio, cioè un film di combattimento, da “encefalogramma piatto”, Leterrier riesce a far centro, con una storia semplice, dove i personaggi e la loro trama si definiscono gradualmente. Gli attori fuggono dallo stereotipo e l’elemento dominante di ciascuno è ragionevolmente sfumato. L’errore sta in tanta violenza gratuita, e nell’indugiare sul clima sordido, anche se il fine è sottolineare il contrasto con la nuova “famiglia” di Danny. José María Aresté. ACEPRENSA.

Kung fusion (Gong fu)

4/06/2005. Regia: Stephen Chow. Sceneggiatura: Stepehn Chow, Tsan Kan Cheong, Chan Man Keung. Interpreti: Stephen Chow, Yuen Wah, Leung Siu Lung, Dong Zhi Hua, Chiu Chi Ling, Xing Yu, Chan Kwok Kwan, Lam Tze Chung, Huang Sheng Yi, Yuen Qiu. 99 m. Cina - Hong Kong. 2005. Giovani- adulti.

Durante il caos pre rivoluzionario degli anni quaranta, Sing, delinquente di mezza tacca, pasticcione e fanfarone, è deciso a farsi protagonista di una qualche impresa, che gli dia il prestigio necessario per entrare nella Axe Gang, uno dei clan mafiosi cinesi più importanti. Sing decide di ricattare i pittoreschi vicini, che vivono in appartamenti della periferia di Shangai.

Questo film delirante ed eccessivo continua sulla linea della parodia eccentrica di Shaolin Soccer (Arbitri, rigori e filosofia zen) (2001) –precedente film diretto e interpretato da Chow (Hong Kong, 1962)- e di quella che ricalca titoli occidentali come L’aereo più pazzo del mondo, con sequenze molto divertenti, molte risse, situazioni paradossali. Tuttavia, inattese, si ritrovano mescolate ben altre sequenze, dotate di forte lirismo.

Certamente il film appare eccessivamente lungo e denso di battute umoristiche e situazioni elementari. D’altra parte, la violenza e certe gag apocalittiche finiscono per stancare. Ma ci sono momenti di vis comica davvero notevoli, che ottengono la risata irresistibile di uno spettatore che non riesce a riprendersi dallo stupore. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani-Adulti. Contenuti: V, S, D. (ACEPRENSA)

Steamboy

4/06/2005. Regista: Katsuhiro Ôtomo. Sceneggiatura: Sadayuki Murai, Katsuhiro Ôtomo. Cartoni animati. Musica: Steve Jablonsky. 120 m. Giappone. 2004. Giovani.

Ultimo film del disegnatore giapponese Katsuhiro Ôtomo, che si è guadagnato fama mondiale con Akira (1988), diventando un punto di riferimento di una futurologia drammatica d’animazione, tramite una visione post-apocalittica di una Tokio dell’anno 2019. Katsuhiro Ôtomo ritorna alla riflessione catastrofista con Steamboy, ambientato nell’Inghilterra vittoriana, nel bel mezzo delle celebrazioni per l’Esposizione Universale di Londra, dove già si specula sulle armi di distruzione di massa che alcune nazioni o imprese sono pronte ad esibire. Un ragazzino, di nome Ray, riceve una misteriosa sfera metallica dal nonno, Lloyd, grande scienziato. Da allora, Ray entra in un mondo incredibile d’intrigo e di avventura. La sfera metallica è una chiave segreta per accedere ad una forza d’incomparabile potere. Ma esistono potenti istituzioni che desiderano impadronirsi della sfera, a fini bellici, e la lotta per ottenerla sarà implacabile.

Il film, dopo dieci anni di preparazione, risulta un eccellente lavoro di animazione in 2D, dettagliata e minuziosa, tanto nella sua presentazione della città di Londra, come nei macchinari che esibisce. Con un’estetica da futurologia retrò che ricorda Sky Captain, Katsuhiro Ôtomo riflette sulle implicazioni etiche della scienza, sui conflitti generazionali, sulla lealtà famigliare e sui complessi rapporti genitori-figli. Al contempo, studia i limiti dell’industria bellica, delle fabbriche di armamenti e della loro influenza sulla politica internazionale e sull’ambiente. Anche se l’impostazione della filosofia della storia è di forte stampo immanentista, non dimentica di segnalare le contraddizioni più evidenti dell’umanità. Il tutto appare integrato in un festival d’immagini veramente portentoso, forse un po’ ridondante, nel solco dei grandi maestri dell’animazione giapponese. Juan Orellana. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani. Contenuti: V. Qualità: *** (MUNDO CRISTIANO)

Kitchen sotories

4/06/2005. Regia: Bent Hammer. Sceneggiatura: Bent Hamer, Jörgen Bergmark. Interpreti: Joachim Calmeyer, Tomas Norström, Reine Brynolfsson, Bjorn Floberg, Sverre Anker Ousdal. 95 m. Norvegia, Svezia. 2003. Giovani.

Al 1950 risale un’indagine di un gruppo di scienziati svedesi sui movimenti ripetitivi delle casalinghe in cucina. Motivo: scoprire nuove sinergie ed elettrodomestici per risparmiare fatica e lavoro: in definitiva, inventare la cucina del futuro. Partendo da questo fatto reale, il regista norvegese di 49 anni, Bent Hamer, in Kitchen stories sospinge la fiction su un nuovo terreno di indagine. In questo caso, si tratta di inviare una equipe di osservatori, in un paese della Norvegia, per esaminare il comportamento degli uomini celibi in cucina. La regole dell’esperimento sono tassative: gli osservatori vigileranno le cavie volontarie dall’alto di un seggiolone, simile a quello usato dagli arbitri di tennis; prenderanno nota del più piccolo movimento, senza poter mai comunicare tra loro. Quest’ultima condizione non appare un problema ad Isak, maturo ed incallito scapolo, che rientra per sbaglio nel progetto. Egli è fermamente deciso a far fallire Folke, il suo osservatore.

Senza ostentazioni, con un’estetica e un ritmo narrativo che ricordano molto i film di Aki Kaurismaki, viene ripresa l’evoluzione di due uomini solitari, dalle vite apparentemente grigie, e che invece si scoprono piene di ricche sfumature quando iniziano a intrecciarsi.

Uno dei pregi più evidenti del film risiede nella molteplicità di chiavi di lettura. Ora vi è un’aperta critica al positivismo e al comportamentismo, molto diffusi a metà del XX secolo, ma facilmente riconoscibili anche in altre realtà più vicine nel tempo, come la diffusione dei reality show. Ne risulta un commovente affresco sull’amicizia, al maschile, nonché un ironico sguardo alle diversità tra due paesi nordici –Svezia e Norvegia- soprattutto. Emerge un elogio della comunicazione, intesa come il vero e unico modo di penetrare la vita degli altri. Per Isak e Folke la vita cambierà –salvando le difficoltà del protocollo della ricerca- quando iniziano a preoccuparsi non di cosa fa l’altro, ma di cosa pensa e sente, di chi è. Scarsi ma brillanti dialoghi, interpretazioni magistrali, musica particolarmente adeguata, tanto discreta quanto opportuna, e per ultimo un fine ed intelligente senso dell’humour caratterizzano questo valido film nordico. Ana Sánchez de la Nieta. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani. Contenuti: -. Qualità: **** (MUNDO CRISTIANO)

La storia del cammello che piange

4/06/2005. Registi, Sceneggiatura: Byambasuren Davaa, Luigi Falorni. Interpreti: Uuganbaatar Ikhbayar, Odgerel Ayusch, Janchiv Ayurzana, Enkhbulgan Ikhbayar. 90 m. Germania, Mongolia. 2003. Giovani.

Commuovere attraverso un cammello. Questa la principale sfida, vinta da La storia del cammello che piange, premiata produzione assurta a documentario europeo capace dei maggiori incassi degli ultimi anni. Ambientato nel Deserto del Gobi, in Mongolia, ritrae le peripezie quotidiane di una numerosa famiglia di nomadi durante il periodo del parto dei cammelli. Le loro esistenze interrompono la monotonia quotidiana, quando una delle cammelle partorisce un cucciolo di cammello, che respinge da sé in quanto nato albino. Tutti elargiscono opere e preghiera per risolvere una situazione così delicata.

Talora sembra difficile sopportare il minimalismo visivo e drammatico imposto da Byambasuren Davaa e Luigi Falorni, lei mongola, lui italiano, entrambi trentatreenni ammiratori di Robert Flaherty (Nanuk l’eschimese), studenti della Scuola di Cinema di Monaco, dove si sono conosciuti. Una certa lentezza, la si deve in parte al copione, molto sintetico, e inizialmente previsto per tv. In tal senso, sarebbe stato meglio indugiare di più sulle differenze generazionali della famiglia protagonista e sul viaggio dei due fratelli in città.

Comunque, i bellissimi paesaggi sono stati fotografati con grande perizia dallo stesso Falorni. Inoltre, tra frequenti battute umoristiche, tutti gli attori non professionisti appaiono all’altezza del loro ruolo. Il copione include momenti di forte lirismo e sottili riferimenti all’attualità, dove ancestrali tradizioni mongole stanno per essere soppiantate dalle nuove tecnologie del consumismo edonista. Il film esalta in modo esplicito la famiglia unita e le profonde convinzioni religiose dei personaggi. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.