Shrek 2

18/12/2004. Regia: Andrew Adamson. Sceneggiatura: J. David Stem, Joe Stillman, David N. Weiss. Cartoni Animati. 80 m. USA. 2004. Giovani.

La nuova avventura dei personaggi creati dallo scomparso William Steig ha dato vita al film che, nel genere cartoons, ha stabilito il nuovo record assoluto di incassi. Racconta le peripezie dell’orco Shrek e della principessa Fiona, sposini novelli, che vengono invitati dai genitori di lei a visitare il castello avito. In compagnia dell’insopportabile Asino, li vedremo attraversare il regno di Molto, Molto Lontano, dove dovranno superare le losche trame di un’intrigante fata –madre del vanitoso Principe Incantatore. Inoltre, ci sarà l’incontro con quell’attaccabrighe del Gatto con gli Stivali, e infine il grave conflitto, da loro provocato, nella propria famiglia reale e nella frivola società locale.

Eccellente l’idea di centrare la trama a partire dai “genitori della sposa”. Nonostante le numerose e indovinate trovate umoristiche, emerge un eccesso di battute e allusioni salaci, specie in materia sessuale, decisamente triviali. Inoltre, anche se efficaci, alcune parodie esibite dal film risultano ripetitive, mirando al facile effetto. Tuttavia, l’insieme si salva perché la critica ironica sulla società appare comunque intelligente e, per di più, il film termina con una rinnovata esaltazione della famiglia e dell’amicizia.

Miglior valutazione spetta alla risoluzione formale del film, che offre sensibili progressi nell’animazione digitale rispetto a Shrek 1, sia negli sfondi, che nella mimica. Non siamo ai livelli d’eccellenza esibiti in Cercando Nemo, e in altre produzioni Pixar, ma il film offre sequenze di sicuro effetto, ambientate con immaginazione e originalità e permeate da un eccellente senso narrativo. Inoltre, la splendida colonna sonora offre numerose canzoni di qualità.

Pertanto, Shrek 2 lascia un sapore agrodolce: vanta numerosi aspetti positivi, dal punto di vista formale e narrativo (splendido, per esempio, il nuovo personaggio del Gatto con gli Stivali), ma cede, nel contempo, alla tentazione di conquistarsi il pubblico adulto con mezzucci di bassa lega, corrompendo la natura di quella che spaccia per una fiaba di fate, alla quale Shrek 1 era rimasto, invece, rigorosamente fedele . Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovani. Contenuti: S, D, F. Qualità tecniche: *** (MUNDO CRISTIANO)

Il mistero dei Templari (National treasure)

18/12/2004. Regista: Jun Turteltaub. Sceneggiatura: Ted Elliot, Terry Rossio, Mariane Wibberley, Cormac Wibberley. Interpreti: Nicolas Cage, Harvey Keitel, Jon Voight, Diane Kruger, Sean Bean, Justin Bartha, Cristopher Plummer. 100 min. USA. 2004. Tutti.

L’archeologo Ben Gates (Nicolas Cage) appartiene ad una famiglia che da diverse generazioni cerca un favoloso tesoro legato ad un gruppo di massoni, firmatari della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti. Si ipotizza che George Washington, Thomas Jefferson e Benjamin Franklin abbiano originariamente nascosto quel tesoro, per finanziare la Guerra d’Indipendenza. Per ritrovarlo, bisogna scoprire un codice segreto incluso nella Costituzione, nonché una mappa che potrebbe trovarsi sul retro della pergamena originale della Dichiarazione d’Indipendenza.

Questo film d’avventura, prodotto da Jerry Bruckheimer (La maledizione della prima luna, King Arthur), ha ottenuto il primo posto nelle sale da cinema degli Stati Uniti, ma grazie all’attuale penuria di film destinati alla famiglia, nonché al successo popolare garantito da trame che uniscono avventura, storia, finzione tecnologica, teorie misteriche-esoteriche ad un esile rapporto con la verità. Se non bastasse, c’è anche un tesoro da ritrovare.

Benché la formula non sia nuova -si pensi alla fortunata serie di Indiana Jones- il film dimostra di reggere abbastanza bene, malgrado la scarsa personalità del regista ed i limiti di un copione, talvolta in modo esasperante, elementare. Il riferimento iniziale ai Templari è semplicemente esilarante. Si tratta di cinema leggero, del genere “visto e dimenticato”, d’intrattenimento famigliare. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

Melinda e Melinda

18/12/2004. Regista: Woody Allen. Sceneggiatura: Woody Allen. Interpreti: Will Ferrell, Vinessa Shaw, Amanda Peet, Chiwetel Ejiofor, Radha Mitchell, Cloë Sevigny. 90 m. USA. 2004. Adulti.

Con la puntualità con cui arriva l’autunno della carriera, ecco il film di Woody Allen. Quasi seguendo un rito ancestrale, ritroviamo negli stessi titoli di coda, nel solito Jazz di New Orleans, nella stessa durata di 90 minuti, nel produttore di sempre, e così via, le tematiche caratteristiche e le ossessioni ricorrenti del cineasta di New York. Allen affronta nel suo ultimo film il relativismo emergente dalla produzione letteraria, riflesso speculare di un relativismo epistemologico diffuso. Uno stesso fatto può essere raccontato in un’ottica che privilegia il tragico, o in un'altra che esalta il lato comico. Entrambi gli ingredienti si ritrovano nella vita, ma se il prevalere di una prospettiva può portare al pessimismo, l’altra finisce per incorrere nel cinismo, ultimo atteggiamento assunto nella vita reale da Woody Allen.

Alcuni amici scrittori si sono dati appuntamento per cena. Uno dei commensali racconta una breve storia che ha per protagonista una donna senza radici, di nome Melinda. Uno degli scrittori ne trarrà una lettura tragica ed esistenziale; un altro, invece, la imposterà sui binari della commedia. Il film, da questo momento, procede secondo un montaggio parallelo, presentando alternativamente due diversi modi di trattare l’argomento, a prima vista inconciliabili.

Radha Mitchell, in una sfida interpretativa assai impegnativa, impersona le due Melinda, quella divertente e quella depressa. Incuriosisce la diversa messa in scena con cui ciascun episodio del racconto viene trattato, secondo opposte angolature. Tra gli attori, emerge la bellezza di Amanda Peet e la vis comica di Will Ferrell. Vediamo riproporsi, quasi al completo, il cast dell’ultima opera di Louis Malle, Vanya sulla 42° strada. Senza raggiungere il miglior Allen, il film appare un‘opera accettabile, ben costruita ed amena, ma intrisa -soprattutto nel finale- di un amaro nichilismo che riflette la decadenza di chi, in altri tempi, -da regista- ha avuto momenti migliori. Juan Orellana. ACEPRENSA.

Pubblico: Adulti. Contenuti: S, D+, F. Qualità tecniche: ** (MUNDO CRISTIANO)

The Polar Express

4/12/2004. Regia: Robert Zemeckis. Sceneggiatura: Robert Zemeckis, William Broyles Jr. Interpreti: Tom Hanks, Leslie Harter Zemeckis, Eddie Deezen, Nona M. Gayer, Peter Scolari. 100 m.USA. 2004. Tutti

La Warner Bros ha prodotto un film natalizio di animazione digitale, che tuttavia negli Stati Uniti ha deluso le attese di successo economico. La trama ricalca un popolare romanzo di Chris Van Allsburg. Ne è protagonista Josh, un ragazzino che dubita di Santa Claus. Per questo, la notte di Natale si ritrova passeggero di un misterioso treno diretto al Polo Nord, dove dovrebbe trovarsi proprio la città di Babbo Natale. Gli farà da guida il conducente del treno, doppiato nella versione originale da Tom Hanks, che interpreta anche altri tre personaggi.

Stavolta, Robert Zemeckis -che aveva integrato animazione e immagini reali in Chi ha incastrato Roger Rabbit- ha prima girato il film a partire dalle immagini reali, per poi farlo trasformare dagli specialisti in produzione tridimensionale in soli cartoni animati. I puristi storceranno il naso di fronte a questa scelta di realismo eccessivo, che aliena i cartoni animati dal proprio alveo genetico: il genere comico. In ogni caso, il film riporta la Warner nell’agone dei film di animazione, dopo lo scarso successo dei precedenti cartoni animati bidimensionali: Space Jam, Il gigante di ferro, Looney Tunes back in action.

Come prevedibile, il meglio del film emerge da scene d’azione davvero emozionanti, proprio perché ideate per proiezioni in formato IMAX. Ne escono esaltate le grandi potenzialità profuse dalle nuove tecniche d’animazione digitale. Assai più discutibili, invece, i rudimentali movimenti e la gestualità innaturale di personaggi che avrebbero dovuto essere rappresentati in ben altro modo. Comunque sia, a far acqua resta proprio il copione. Convenzionale, prevedibile, drammaticamente superficiale, propina una visione del Natale priva, di fatto, di un qualsiasi riferimento religioso. L’elogio della solidarietà e dell’integrazione razziale e sociale vi è proposto con sorprendente stanchezza emotiva. Soltanto nei personaggi più caricaturali ed insoliti -l’angelo mendicante e i due macchinisti maldestri- si intuisce come ben altre sarebbero state le potenzialità della storia, se svolta in modo meno sdolcinato, con humour più incisivo e coraggioso. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.

Alien vs. Predator

4/12/2004. Regista: Paul W.S. Anderson. Sceneggiatura: Paul W.S. Anderson. Interpreti: Sanaa Lathan, Raoul Bova, Lance Henriksen, Ewen Bremner, Colin Salmon. 100 min. USA. 2004. Giovani.

Il multimiliardario Charles Bishop Weyland (Lance Henriksen) organizza una spedizione scientifica per indagare su di un insolito aumento di temperatura su di un’isola dell’Antartide, rivelato da uno dei suoi satelliti. Tale fenomeno consente di arrivare ad un’antichissima piramide azteca sepolta a 600 metri sotto una calotta di ghiaccio. La squadra troverà conferma di un culto antichissimo a misteriose creature, dedite a strane battute di caccia rituali… Ma sta proprio per iniziarne una! Weyland e la sua squadra avranno l’opportunità di parteciparvi, ospiti di cuccioli di alieni.

Si potrà criticare la mancanza di originalità della trama: indugia su filoni già battuti ed è scarsa di contenuto. Verissimo. Lo spettatore sa che gli alieni hanno sangue acido di color verde, e sono una sorta di lucertoloni molto prolifici con caratteristiche assai sgradevoli; e sa anche che i predatori sono dotati di visione infrarossa e visore laser triangolare. In ciò nulla di sorprendente. Nemmeno nei protagonisti della spedizione: personaggi piatti, destinati ad essere eliminati già dopo le battute iniziali della storia. Non si potrà accusare tuttavia la Fox di secondi fini. Il film è esattamente quello che ci si attende: un semplice passatempo che offre l’atteso scontro tra le più sanguinarie creature dello spazio, anticipato dalla prima esibizione della saga dei predatori, dove si ostenta un cranio di alieno.

Paul Anderson si sforza di svolgere il suo mestiere nel miglior modo possibile: assolve l’incarico con competenza e professionalità. Ne risulta un prodotto di consumo per pubblico di modeste pretese. Fernando Gil-Delgado. ACEPRENSA.

2046

4/12/2004. Regista: Wong Kar-Wai. Sceneggiatura: Wang Kar-Wai. Interpreti: Tony Leung. Gong Li, Kimura Takuya, Faye Wong, Zhang Ziyi, Carina Lau, Chang Chen, Wang Sum, Siu Ping Lam, Maggie Cheung. 120 m. China-Francia-Germania. 2004. Adulti.

Si tratta dell’ottavo film del prestigioso regista cinese Wong Kar-Wai (Shangai, 1958), alquanto atteso dopo il successo di In the Mood for Love. 2046 non delude, ma trattandosi di variazione su tema, rispetto al precedente film, non c’è più la sorpresa.

Kar-Wai sembrerà anche ripetersi, ma ora coglie una diversa prospettiva narrativa: quella del giornalista-scrittore cinico, incallito fruitore di belle donne e allergico al senso del dovere. La forza stilistica di Kar-Wai è semplicemente travolgente. È capace di fermare il tempo creando pregevoli brani poetici, con l’aiuto della sua cinepresa, in sintonia con i lenti ritmi del “bolero”: i più adeguati alla scansione contemplativa. Peraltro, 2046 non riesce a fugare i dubbi e l’inquadramento riduzionista di un regista che pure intende affrontare il profondo mistero dell’amore umano. Il film si avvale della collaborazione di uno straordinario cast, impreziosito dalla fotografia di Christopher Doyle.

Questa accattivante e tormentata storia, in spazi stretti, con porte e scale che si alternano su muri consumati da travolgenti passioni, dopo tanti approcci superficiali e qualche amore nobile, misterioso e sfortunato, lascia intravedere una conclusione positiva. Si può infatti rileggerne la fase finale in chiave di elogio della fedeltà, di questa fedeltà pura, capace di redimere la solitudine che genera l’egoismo fashion. Peccato che, per strada, si smarrisca la linearità del messaggio e si prescinda dal pudore -l’incantevole pudore orientale- che tanto contribuiva alla strana e magnetica bellezza del precedente film. Non è da scartare una svolta commerciale in Kar-Wai (del resto, si è verificata per Zhang Yimou con La Foresta dei Pugnali che Volano) per accalappiare spettatori di modesta immaginazione: quelli che esigono che la cinepresa entri in camera da letto, con la stessa meticolosa pedanteria di un notaio. Alberto Fijo. ACEPRENSA.