Fahrenheit 9/11

31/07/2004. Regista: Michale Moore. Intervengono: Michael Moore, George W. Bush, John Tanner. Fotografia: Mie Desjarlais. Colonna sonora: Jeff Gibbs. Documentario.121 min. USA. 2004. Uscita cinema Italia: 27 agosto.Adulti.

Sono quindici anni che Michael Moore fa sfoggio di aggressività attraverso libri, trasmissioni polemiche a TV Nation e The Awful Truth, o documentari come Roger&Me, The Big One o Bowling for Colombine, vincitore -quest’ultimo- del premio Oscar 2003. Adesso prosegue la sua personale campagna anti-Bush con Fahrenheit 9/11, saggio cinematografico vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes 2004, fatto apposta per accendere gli animi.

Questa volta Michael Moore mette sotto inchiesta la legalità del trionfo di Bush alle presidenziali del 2000, mettendo alla berlina il patetico sconcerto presidenziale alla notizia degli attentati dell’11 di settembre. Non si ferma certo qui: svela anche gli interessi commerciali che legano le famiglie di Bush e Bin Laden, presentando la guerra in Iraq come sanguinario apparato ideato per tener desta la paura diffusa negli Stati Uniti e mascherare così il fiasco della lotta contro Al Qaeda, a tutto vantaggio di biechi intrallazzatori finanziari e mercanti d’armi.

Il regista, noto per la sua pinguedine, sfodera l’ennesimo film a metà tra l’umorismo dell’assurdo e la catarsi tragica, ricorrendo ad immagini, testimonianze, gags e sequenze fantasiose di alto interesse giornalistico, quasi tutte capaci di cogliere nel segno, assemblate in un montaggio molto agile, per di più con l’ausilio di una splendida colonna sonora. Inoltre, Moore appare molto meno del solito sullo schermo, così che il film ne trae decisamente vantaggio.

Tuttavia, l’irruente regista del Michigan esagera nella caricatura di Bush e del suo staff, ricorrendo a seduzioni di tipo sentimentalista, elettorale e manipolatorio, al momento di parlare della guerra dell’Iraq. Questi artifici, propri della libellistica, inquinano il rigore delle argomentazioni proposte da Moore, destando dubbi nei suoi scarsi accenni ad Israele, a proposito della politica estera degli Estati Uniti.

In realtà, Michael Moore non è documentarista imparziale, alla ricerca di una visione completa e ponderata della realtà. Ma appare piuttosto nei panni di un lucido e irritante commentatore politico, che utilizza il cinema con lo stesso talento, sfacciataggine e soggettivismo usato per un programma televisivo, un libro o un editoriale. È necessario, dunque, puntualizzare quanto sopra non solo per tributare omaggio alle capacità di Moore come commentatore cinematografico, ma anche per rilevare i gravi limiti di documentarista. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.

Abbasso l'amore (Down with love)

31/07/2004. Regista: Peyton Reed. Sceneggiatura: Eve Ahlert e Dennis Drake. Interpreti: Renée Zellweger, Ewan McGregor, Sarah Paulson, David Hyde Pierce, Tony Randall. 101 min. USA. 2003. Adulti.

Dopo aver diretto cortometraggi, video clips e telefilm, lo statunitense Peyton Reed ha esordito nel 2000 con Ragazze nel pallone, mediocre commedia di cheerleaders. Adesso, in Abbasso l’amore, cerca d’imitare il tono sentimentale e un po’ piccante di tre commedie rose -Letto racconta…, Amore, ritorna!, Non mandarmi fiori- che hanno dato notorietà a Doris Day e Rock Hudson, inaugurando una nuova sottospecie di commedia sofisticata hollywoodiana. Reed ha potuto contare, in questo lavoro, su di un’eccellente team artistico e tecnico, ma in complesso ne esce un buco nell’acqua, irritante a causa di quel tono troppo incline alla parodia e intriso di sesso.

Nel 1963, arriva a New York Barbara Novak, ingenua ragazza del Sud, autrice di un pamphlet contro il maschilismo, intitolato Abbasso l’amore, in cui rivendica la liberazione della donna che, secondo lei, deve rinunciare all’amore verso gli uomini, conquistando senza complessi il mercato del mondo del lavoro. Il libro diventa best-seller mondiale e Barbara, l’icona del nuovo femminismo. Ciò suscita lo spirito di rivalsa di Catcher Block, vanitoso play-boy, nonché giornalista, emblema della più famosa rivista maschile. Per dimostrare la falsità delle tesi di Novak, Catcher cercherà di sedurla, impersonando un affettuoso e ingenuo scienziato nucleare. Nel frattempo, i rispettivi editori dei due protagonisti, vivono in parallelo una storia d’amore singolare.

Da sempre, la grande commedia esige una delicata ed equilibrata intelaiatura, capace di suscitare la risata o il sorriso, senza indulgere in dabbenaggini o in eccessi grotteschi o volgari. Abbasso l’amore ottiene tale equilibrio solo a tratti, più nell’ambientazione che nei personaggi. Bisogna inchinarsi di fronte allo sforzo tecnico realizzato -direzione artistica, costumi, fotografia, colonna sonora- capaci di ricreare lo charme, in brillante technicolor, delle commedie dei primi anni Sessanta. Anche le divertenti tresche d’amore si sviluppano con agilità, senza cadute di tensione. Infine, eccellenti attori, come Zellweger e McGregor in testa, profondono carisma e qualità. Tutto ciò, tuttavia, appare al servizio di una storia stonata, che apparentemente esalta il matrimonio, ma spesso scade a crudele parodia di quei valori morali che sostenevano le commedie di un tempo, che pretende imitare. Non parliamo poi delle grossolane boutade a base di sesso, impensabili nei film dell’epoca, nonché incettabili in una commedia rispettosa dello spettatore intelligente.

Così, Abbasso l’amore, rispetto alle commedie classiche presenta lo stesso grave difetto di Lontano dal paradiso (Far from Heaven), ove lo si confronti ai drammi di Douglas Sirk. Il risultato è un anacronistico surrogato di quei valori etici alla base dei films, cui si presumeva tributare omaggio. E se mancano le fondamenta, sopravvive solo un fragile castello di carte, anche se all’esterno si spaccia da maestoso grattecielo. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.

Pubblico: adulti. Contenuti specifici: S+, D, F .Qualità tecnica: ** (CINEFORUM 2004)

School of rock

31/07/2004. Regista: Richard Linklater. Sceneggiatura: Mike White. Interpreti: Jack Black, Joan Cusack, Mike White, Sarah Silverman, Kevin Clark, Robert Tsai, Josey Gaydos Jr., Rebecca Brown. 108 min. USA. 2003. Giovani.

Dewey è il caotico, pigro e istrionico chitarrista di un gruppo rock di terz’ordine. Un bel giorno si ritrova cacciato via dal gruppo e di fronte all’utimatum postogli dall’amico, cui deve la pigione per l’affitto. Pressato da ogni parte, questo patito del rock si fa passare proprio per quel suo amico, che è professore, riuscendo ad entrare -da supplente- in una prestigiosa scuola privata, elementare-media. Alle spalle della rigida preside, e d’accordo con i giovani alunni, Dewey mette su un aggressivo gruppo rock con la segreta intenzione di competere ad una prestigiosa sfida musicale

Dopo film molto discutibili come Prima dell’alba, Suburbia o Waking Life, il regista indipendente Richard Linklater si affaccia al film commerciale con School of rock, che ha avuto ragguardevole successo di pubblico negli Stati Uniti. Certamente, la sua visione controcorrente del rock è molto superficiale, talvolta grossolana. Inoltre, Jack Black esagera in più occasioni. Ma la storia riesce a mantener vivo un gradevole tono famigliare, un simpatico spirito critico ed un ingenuo idealismo, in un mix di varie sequenze davvero divertenti, dove rifulge la disinvoltura dei bambini protagonisti, nonché le inesauribili risorse di Joan Cusack. Inoltre, la colonna sonora propone alcune delle migliori canzoni rock, intercalate ad alcuni temi originali, abbastanza piacevoli, composti specificamente per il film. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.

Pubblico: giovani. Contenuti specifici: S, D, F. Qualità tecnica: * * (MUNDO CRISTANO)

Miracle

24/07/2004. Regista: Gavin O’Connor. Sceneggiatura: Eric Guggenheim. Interpreti: Kurt Russell, Patricia Clarkson, Noah Emmerich, Sean McCaan, Kenneth Welsh, Eddie Cahill. 135 min. USA. 2004. Giovani.

Siamo nel 1980, ad invasione sovietica dell’Afghanistan compiuta. L’allenatore della nazionale di hockey su ghiaccio degli Stati Uniti porta un gruppo di giovani universitari ai Giochi Olimpici invernali, per misurarsi con lo strapotere della nazionale sovietica. Enorme è il divario tra le due squadre, ma quella statunitense risente, per di più, di tutta la pressione della Guerra Fredda.

Miracle è il tipico film di agonismo sportivo, ben narrato e con spunti interessanti. Anche se non mancano squilli di tromba nazionalistici e un po’ sciovinisti, il film ha il sapore di un Master&Commander dello sport, dove un leader implacabile risce nell’impresa di portare i suoi ragazzi ad una meta quasi impossibile. L’aiuto allenatore e il medico contribuiscono ad attenuare la durezza del capo, rivelando un carattere ricco di comprensione ed umanità. Vi rientra anche la vicenda matrimoniale dell’allenatore, con un’eccellente Patricia Clarkson nel ruolo di sposa forte e generosa.

Il film, diretto da Gavin O’Connor, divenuto celebre nel Sundance Festival con Tumbleweeds, descrivendo la vittoria sull’individualismo a favore dello spirito di squadra, sembra così riuscire a risollevare la nazione statunitense da un momento critico. Se non bastasse, risulta pure uno spettacolo adatto ad ogni famiglia e meno superficiale di quanto possa sembrare. Juan Orellana. ACEPRENSA.

Pubblico: giovani. Contenuti specifici:-. Qualità tecnica: *** (MUNDO CRISTANO)

La ragazza della balene (Whale rider)

24/07/2004. Regista: Niki Caro. Sceneggiatura: Niki Caro. Interpreti: Keisha Castle-Hughes, Rawiri Paratene, Vicky Haugthon, Cliff Curtis. 105 min. Nuova Zelanda. 2002. Giovani.

Secondo film della neozelandese Niki Caro, costituisce una delle più gradite sorprese della stagione. Si tratta di un piccolo gioiello che ha vinto diversi premi, come quelli del pubblico in Sundance e in Spagna, al festival di San Sebastian. Inoltre, Keisha Castle-Hughes, la giovane protagonista, ha concorso all’Oscar come migliore attrice, a soli tredici anni.

Un popolo maori della costa della Nuova Zelanda lotta per mantenere la propria identità. Koro, il vecchio capo, aspetta l’arrivo di un nuovo leader, a immagine del leggendario Paikea, fondatore della stirpe. Avrebbe potuto esserlo il primo figlio di Porourangi, primogenito di Koro, ma moglie e figlio muoiono al momento del parto, cui sopravvive solo la sorella gemella. Straziato dal dolore, Porourangi emigra e in un atto di ribellione, chiama proprio Paikea la bambina, ovvero le trasmette la leadership, derogando alla tradizione che ammette solo la linea maschile. Dodici anni più tardi, per i maori le cose peggiorano: Koro, sempre in cerca di un leader, anche se vuole un gran bene alla nipote, ne ignora le qualità, gli sforzi e la convinzione di poter aiutare il suo popolo.

Scegliendo questo tema, era molto facile cadere nei luoghi comuni di un falso femminismo, o maltrattare, con opinioni “politicamente corrette”, le vecchie tradizione maori. Anche se fosse solo per aver superato queste tentazioni, bisogna far tanto di cappello davanti al lavoro di Niki Caro. Ma il film vale ancora di più. Non solo narra una storia di gente reale in un mondo reale e contemporaneo, al ritmo della vita quotidiana, ma pone inoltre a confronto, in modo geniale, una bambina -la magistrale Keisha Castle-Hughes- e alcuni adulti, davvero ben caratterizzati. Infine, riesce a riservarci un finale originale, pieno di forza, poesia e sentimento. Fernando Gil-Delgado. ACEPRENSA.

Pubblico: giovani. Contenuti specifici: V-, D-, F .Qualità tecnica: *** (MUNDO CRISTIANO)

Un principe tutto mio (The prince & me)

24/07/2004. Regista: Martha Coolidge. Sceneggiatura: Jack Amiel, Michael Begler. Interpreti: Julia Stiles, Luke Mably, Ben Miller, James Fox, Miranda Richardson, Alberta Watson, Eliza Bennet. 110 min. USA. 2004. Uscita cinema Italia: 27 agosto 2004. Giovani.

Il principe Edvard di Danimarca, giovane colto ed elegante, ma frivolo e superficiale, va a studiare nel Wisconsin, per tenersi alla larga dai genitori. Celando la sua vera identità, dice ora di chiamarsi Eddie. Finisce per innamorarsi di Paige, una ragazza d’origine contadina assai studiosa, che ha scelto di prepararsi per studiare Medicina.

Questo racconto di fiabe di Martha Coolidge (Tre desideri, Proibito amare) risulta un buono spunto, riuscendo attraente, grazie anche alle valide interpretazioni dei protagonisti e alla bellezza dei paesaggi. Peccato che il il copione finisca per risultare troppo prevedibile e, alle volte, perfino un po’ dozzinale. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.

Pubblico: giovani. Contenuti specifici: S, D, F. Qualità tecnica: * * (MUNDO CRISTANO)

La donna perfetta (The Stepford wives)


Regia: Frank Oz. Sceneggiatura: Ira Levin, Paul Rudnik. Interpreti: Nicole Kidman, Matthew Broderik, Glenn Close, Bette Midler, Christofer Walken. Durata: 90'. USA 2004. Censura USA: PG-13

Joanna è una donna in carriera, potente producer TV di reality show, ma un giorno commette un errore e si ritrova improvvisamente senza lavoro. Suo marito,una persona modesta ma fedele, si preoccupa di farle cambiare completamente città ed ambiente, portandola in un villaggio da cartolina natalizia, pieno di aiuole ben curate e di confort. Ma non tutto appare normale, sopratutto quelle premurose mogliettine che sembrano quasi dei robot....

Il preambolo del film è ottimo: il regista riesce a tratteggiare in pochi, intensi minuti, gloria e caduta di una producer televisiva (dalla convention trionfante con tutte le reti acquirenti al colloquio con il direttore che le dà un mellifluo benservito). Nicole Kidman è bravissima a tratteggiare una donna tutta lavoro ed efficienza; in un primo piano che dura qualche minuto, passa dall'autocompiacimento, al sospetto, alla realizzazione della sconfitta ed infine al recupero di un sorriso di circostanza.

Poi il film cambia direzione: ci porta nel villaggio suburbano ed esclusivo di Stepford; qui coppie ben affiatate vivono in un paradiso terrestre dove ordine, serenità, cortesia sembrano prevalere sotto lo sguardo vigile e premuroso dei coniugi Wellington, i fondatori di questa isola dell' utopia. Mentre gli uomini si divertono a giocare con le macchinine telecomandate nel loro circolo esclusivo, le donne si premurano di render la casa splendente e leccata come una bomboniera, di preparare deliziose torte alla crema e la sera, se i mariti lo desiderano, essere disponibili per amori infuocati.

Il film è un remake de "la fabbrica delle mogli", realizzato nel 1975. Lo schema tipico di un thriller-horror (la protagonista scopriva che le altre mogli non erano altro che delle copie-robot costruiti secondo i desideri dei mariti) veniva impiegato per convogliare un messaggio di satira sociale sull'allora emergente femminismo e sulla tendenza di costruire esclusivi quartieri middle-class dove la gente di colore restava esclusa. Frank Oz ha cercato di riportare la storia ai giorni nostri (il tema dell'esclusione dei neri viene sostituito con quello, molto più attuale, dell'accettazione di una coppia gay) impiegando questa volta il tasto della commedia surreale ma l'operazione fallisce per una sostanziale incoerenza nella storia e per non aver saputo trovare un nuovo bersaglio da colpire che possa realmente interessare il pubblico di oggi.

Non si capisce perché da una ambientazione attualissima nel mondo dei media televisivi , si salti in un'epoca di donne cotonate e con i vestitini a fiori, tipiche dell'era Eisenhower, tutte entusiaste per i provvidenziali elettrodomestici frutto del boom dei consumi di massa. Quando vediamo la signora Wellington invitare le altre donne a fare ginnastica con un balletto che imita i movimenti della lavatrice, ci domandiamo se sia mai esistito, o se sia mai stato desiderato se non appunto dalla mente malata di qualche marito complessato, un mondo di donne di plastica, solo cucina e letto (la tematica della cura dei figli è praticamente assente) . Anche il tema degli uomini preoccupati dal prepotente carrierismo delle donne si può considerare oggi, se non superato, almeno assorbito.

Altri film si sono interessati a mondi utopistici : The Truman Show (1998) preservava l'innocenza di un giovane relegandolo in un mondo artificiale in un reality show che durava quanto la sua vita, costruito secondo i canoni perbenisti dei serial televisivi anni '50, ai soli fini commerciali di tener alto l'audience televisiva. Ancor più chiaramente Pleasantville (1998) avevano affrontato il tema chiave: "per realizzare un mondo buono ed onesto, è giusto costruire delle microsocietà chiuse e protette con barriere dalle influenze esterne, dal cambiamento? La risposta era stata, in entrambi i casi, un no: meglio affrontare la complessità e l'imperfezione del mondo reale che rinchiudersi in un algido, statico, mondo artificiale. In effetti le utopie tradiscono un difetto di origine: sono fatte ad immagine di chi le ha ideate e non prevedono contestazioni da parte di chi le dovrebbe applicare.

Gli sceneggiatori di La donna perfetta avrebbero potuto caricare di maggior pathos il dilemma realtà/utopia (solo in una occasione Johanna contrasta le idee del marito, ricordandogli che amare veramente vuol dire voler bene ad una persona esattamente per quello che è, con tutti i suoi pregi e difetti, invece di cercare di vedere in lei solo ciò che ci piace o ci fa più comodo vedere) ma si sono invece limitati cercare di divertirci raccontandoci le conseguenze paradossali di un presupposto che è risultato poco credibile.

Nonostante l'ottimo cast , il film resta un'occasione mancata di satira sociale ed il tono da commedia brillante è dai noi poco apprezzabile perché molte battute fanno riferimento a fatti e personaggi tipicamente americani. Franco Olearo. Per gentile concesione di FAMILYCINEMATV.

Valori/Disvalori: Accettare di amare una persona per quello che è vale più della ricerca di una perfezione frutto di una nostra visione utopistica.

Si suggerisce la visione a partire da: giovani-adulti. Per le tematiche sessuali e alcuni riferimenti verbali a incontri amorosi che non vengono mostrati.

Giudizio tecnico: ** . Incoerenza nel soggetto e proposta di tematiche non più attuali

L'ultima alba (Tears of the sun)


17/07/2004. Regista. Antoine Fuqua. Sceneggiatura: Alex Lasker, Patrick Cirillo. Interpreti: Bruce Willis. Monica Bellucci, Cole Hauser, Tom Skerrit, Fionnula Flanagan. 118 min. USA. 2003. Giovani-Adulti.

Dopo l’ennesimo copo di stato, in Africa, che rovescia il presidente, ecco apparire un nuovo dittatore, un’altra guerra civile ed un’etnia pronta ad ad eliminarne un’altra. Centinaia di migliaia di civili fuggono. Molti vengono uccisi senza motivo. Per un capriccio dello sceneggiatore, il paese si chiama Nigeria, ma potrebbe riguardare tanti altri paesi dove la vicenda risulterebbe verosimile.

L’ultima alba narra la storia di un tenente dei Navy Seal (Bruce Willis), inviato ad evacuare dal paese una cittadina statunitense, la dottoressa Kendriks (Monica Bellucci), la quale si rifiuta di abbandonare la “sua gente”. Riuscirà, così, a trasformare quella che, per i Seals, sarebbe una normale missione di routine, in una complicata e rischiosa operazione, fonte di ripercussioni politiche e diplomatiche a livello internazionale.

Antoine Fuqua (Training Day) ha voluto girare una storia classica di eroismo, venata di senso morale: perché il male trionfi, è sufficiente che restino inattivi gli uomini di buona volontà. Il film inizia con uno sconvolgente montaggio d’immagini reali, su cui si innesta la storia di alcuni soldati che decidono di trasgredire gli ordini, pur di non restare spettatori impassibili di un massacro: decisione giusta, secondo il regista.

Tecnicamente, la regia è valida, con tutti gli ingredienti del caso. Unico rilevante limite del film è costituito dalla recitazione della Belluci, che rovina tutte le sequenze del film in cui appare, per essere palesemente inadatta a questo ruolo. Un determinato pubblico si dimostra critico verso l’Ultima Alba, per il ruolo idealizzato con cui si inneggia all’eroismo e all’umanità di truppe statunitensi, che di questi tempi non sono poi così popolari: ma questo è un motivo contingente, di altra natura, che non entra nel merito. Fernando Gil-Delgado. ACEPRENSA.

Pubblico: giovani-adulti. Contenuti specifici: V+, S, D, F. Qualità tecnica: * * *(MUNDO CRISTANO)

tredici variazioni sul tema (Thirteen conversations about one thing)

17/07/2004. Regista: Jill Sprecher. Sceneggiatura: Karen Sprecher, Jill Sprecher. Interpreti: Alan Arkin, William Wise, Matthew McConaughey, John Turturro, Clea Du Vall, Amy Irving. 94 min. USA. 2001. Giovani-Adulti.

Da qualche tempo arrivano dagli Stati Uniti vari film ad effetto ragnatela, che offrono, cioè, un complesso mosaico sociale, seguendo vari personaggi, le cui storie sono minacciate dagli imprevedibili colpi del destino. Tale, l’impostazione di Tredici variazioni sul tema, secondo lungometraggio di Jill Sprecher, che ha esordito da regista nel 1997 con il notevole Impiegate a tempo determinato (Clockwatchers).

Il titolo originale -Tredici conversazioni su una stessa cosa- ne riflette molto bene la struttura e l’intenzione. “Questa stessa cosa” è la felicità, meta ideale di tutti i personaggi, perseguita su strade diverse, anche se tutti vivono a New York. Un incupito impiegato, divorziato e con un figlio tossicomane, riversa la sua amarezza su un suo modesto subalterno, perennemente gaio. Il persecutore si confida con un giovane avvocato che vedrà vacillare la sua trionfale esistenza, dopo un incidente, dal quale declina ogni responsabilità. Per colpa di questo incidente, una graziosa giovane, donna delle pulizie a domicilio, dovrà sperare in un miracolo per tirar avanti. Un miracolo grande, come quello necessario a due sposi in crisi, una sofferta donna matura e un timido professore, in relazione sentimentale con una maestra del suo liceo.

Come nel precedente film, Sprecher usa un tono agrodolce, alle volte scarno, che costringe i personaggi a destreggiarsi tra la commedia e il dramma, senza mai venir meno ad una profonda capacità d’introspezione psicologica, molto efficace nel ricercarcare i più intimi dettagli della dignità umana. Talvolta -come nella storia dell’adulterio- Sprecher si limita a constatare le perplessità dei personaggi. Altre -soprattutto nella storia della giovane donna delle pulizie- avvolge i conflitti in un alone di mistero, suggestivo in sé, ma forse troppo etereo. Infine, coglie spesso nel segno, riuscendo a trarre situazioni emotive di elevato valore drammatico. Così, il conflitto tra l’impiegato amareggiato e quello felice getta ampi squarci sulla dimensione professionale, sull’invidia, la tristezza e il buon umore. A sua volta, la tragedia dell’avvocato in crisi è una coraggiosa denuncia della necessità di assumersi le proprie colpe, saper chiedere perdono e riparare. Ne nascono -così come anche nelle altre storie- sorprendenti connessioni tra libertà e destino, nonché il senso purificatore della sofferenza, soprattutto in una società materialistica e scarsa di valori, come quella odierna.

Il film è un incalzare di sequenze, senza apparente filo logico, scandite da un ritmo sincopato, talvolta a scapito della fluidità narrativa del discorso sottotraccia. Ad ogni caso, il messaggio non va perso, grazie a dialoghi ricchi di contenuto e intelligenti, che permettono di dare il meglio di sé ad attori eccellenti , esaltati dalla sobrietà delle riprese voluta da Sprecher. Su tutti, emerge il veterano Alan Akrin, cosi incredibilmente coinvolgente in ogni momento, da chiedersi come possa ancora essere ingnorato dai grandi produttori di Hollywood: altro paradosso di un film interessante, che ha dovuto attendere due anni, prima di farsi apprezzare anche qui. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.

Pubblico: giovani-adulti. Contenuti specifici: V, S, D, F. Qualità tecnica: **** (MUNDO CRISTANO)

Osama

17/07/2004. Regista: Siddiq Barmak. Sceneggiatura: Siddiq Barmak. Interpreti: Marina Golbhari, Arif Herati, Zubaida Sahar, Gol Rahman Ghorbandi, Mohamad Haref Harati, Mohamad Nader Khadjeh. 82 min. Afganistan. 2003. Giovani.

Nell’Afghanistan dei talebani e dei burka, il film ritrae una famiglia composta di sole donne (gli uomini sono caduti in guerra): la nonna, la madre e una bambina, in una situazione tremendamente precaria. Fanno quello che possono per tirare avanti, ma oltre le molte penurie c’è il fatto di rientrare nella condizione femminile, in un paese dove la donna non ha diritti. Se non bastasse, in quanto donne non possono uscire per strada da sole: quando si tratti di lunghi percorsi, devono essere sempre accompagnate da un uomo. Una volta si può anche chiedere questo favore ad un parente, ma poi…? Cosa escogitare per potersi muovere con più continuità, in libertà, così da guadagnarsi il pane? L’unica idea è travestire la bambina da ragazzo, perché serva da scorta. La cosa funziona bene all’inizio. Ma quando Osama (il nome maschile inventato per la piccola travestita) è chiamato ad assistere alla scuola islamica e a partecipare ad attività vietate alla donna, s’innesca una spirale sempre più pericolosa.

Come molti film iraniani (non certamente particolareggiato come quelli di Abbas Kiarostami) questo film afgano primeggia in semplicità, per esposizione narrativa. Siddiq Barmak, che ha potuto girarlo nel suo paese in relativa libertà, dopo la caduta del regime dei talebani, si sforza, con successo, di descrivere un dramma famigliare, scatenato in seno ad una società, dove impera il fanatismo. Ancor più pressante, quando la discriminazione si eserciti nel nome di Allah. Il regista e sceneggiatore descrive bene l’inevitabile prematuro trapasso dell’innocenza infantile, cui si vede costretta la bambina, una volta obbligata a muoversi secondo parametri che le sono incomprensibili: le recriminazioni della famiglia perché non sa adeguarsi alle regole del gioco, la frequenza a scuola tra le beffe dei compagni che la dscrirminano, avvertendone la differenza, la spiazzano. In quest’atmosfera ostile troverà la comprensione di un compagno, inizialmente a lei ostile, che saprà rendersi conto della sofferenza di Osama. La scena dell’arrampicamento sull’albero e quella delle abluzioni, sono assai eloquenti. Gli attori, non professionisti, si muovono con gran naturalezza.

Quasi nullo lo spazio per l’ottimismo, il film di Barmak ha ricevuto la menzione speciale Camera d’Oro a Cannes e premi in Spagna. Sa certamente inquadrare emozioni semplici e taluni comportamenti generosi, ma in un’atmosfera cupa e asfissiante. Ne esce fuori il volto meno attraente dell’Islam per quasi l’intera durata del film, concluso da un deprimente finale, per fortuna breve, in cui si domanda allo spettatore se sia meglio morire o sopravvivere da murati vivi, come in una tomba. Jose María Aresté. ACEPRENSA.

Pubblico: giovani-adulti. Contenuti specifici: V, S. Qualità tecnica: ****(MUNDO CRISTIANO)

Timeline


10/07/2004. Regista. Richard Donner. Sceneggiatura: Jeff Maguire, George Nolfi. Interpreti: Paul Walker, Francis O’Connor, Gerard Butler, Billy Connlly, Anna Friel, Ethan Embry, Lambert Wilson. 120 min. USA. 2003. Giovani.

Timeline è un film per le vacanze e per adolescenti, da non prendere troppo sul serio. Adatta un romanzo di Michael Crichton, famoso per la serie di Jurassic Park,. Anche il regista è lo stesso di un’altra serie, Arma Letale. Racconta la storia di un gruppo di americani, di professione archeologi, che una macchina del tempo riporta al Medioevo. Si trovano coinvolti in una battaglia tra inglesi e francesi, nella quale il loro apporto sarà decisivo per decidere le sorti dello scontro.

Se non teniamo conto di alcuni aspetti un po’ troppo paradossali, ci troviamo di fronte a un film gradevole, nel suo genere, con combattimenti, avventure e trame romantiche, donde emergono i tradizionali valori dell’amicizia, dell’onestà, del sacrificio, del cameratismo… e un certo amore per la storia. Tutto, ben girato dal veterano Richard Donner (Superman, Ladyhawke). Juan Orellana. ACEPRENSA.

Pubblico: giovani-adulti. Contenuti specifici: V, D, F. Qualità tecnica: * * (MUNDO CRISTANO)

La giuria (Runaway jury)


10/07/2004. Regista: Gary Fleder. Sceneggiatura: Brian Koppelman. Interpreti: John Cusack, Gene Hackman, Dustin Hoffman, Rachel Weisz, Bruce Davison, Bruce McGill. 100 min. USA. 2003. Giovani

Esperto in film dotati di forte tensione, - Cosa fare a Denver quando sei morto, Don’t say a word, Impostor- lo statunitense Gary Fleder, in La Giuria, offre un adattamento del popolare romanzo di John Grisham. Il film è una dura requisitoria contro la vendita di armi negli Stati Uniti e contro il sistema delle giurie popolari, su cui si fonda l’amministrazione della giustizia in quel paese. La trama sviluppa i drammi incrociati e paralleli di tre protagonisti di un acceso processo contro un’impresa, per vendita indiscriminata di armi. Da un lato c’è l’avvocato onesto e idealista, ma fragile, che difende la famiglia di un uomo assassinato. Dall’altro, il durissimo e cinico avvocato dell’impresa di armamenti, specialista nel manipolare giurati. Tra i due contendenti, appare anche un giovane membro della giuria, che, in connivenza con la fidanzata, cerca in tutti i modi di arricchirsi da questo processo.

La trama, un po’ scontata, prevedibile e provinciale, appare troppo simile a Il giurato di Brian Gibson. Ma inquadra bene certi argomenti interessanti di deontologia giuridica, mantenendo un elevato grado di attenzione, grazie all’adeguato allestimento scenico di Gary Fleder e alla presenza di un cast di vigorosi attori. Se Gene Hackman, John Cusack e Rachel Weisz svolgono un ottimo lavoro, appare invece un po’ sprecato Dustin Hoffman, alle prese con un personaggio sacrificato da un copione che privilegia il protrarsi della suspense, piuttosto che l’analisi sugli interessanti conflitti morali che intercorrono tra i personaggi. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.

Pubblico: giovani. Contenuti specifici: V, S, D, F. Qualità tecnica: *** (MUNDO CRISTANO)

Prova a prendermi (Catch me if you can)

10/07/2004. Regista: Steven Spielberg. Sceneggiatura: Stepehn Nathanson. Interpreti:Leonardo DiCaprio, Tom Hanks, Christopher Walken, Martin Sheen, Nathalie Baye, Amy Adams.141 min. USA. 2002. Giovani-adulti.

Dotato d’indubbio talento e capace ormai di ritagliarsi una posizione privilegiata nel paesaggio hollywoodiano, per meriti acquisiti, Steven Spielberg può ormai fare ciò che vuole. Così si spiega la sua decisione di dirigere questa commedia leggera su un ladro davvero sofisticato. Ne risulta un film assai attraente, del tutto orginale rispetto ai precedenti, inizialmente affidato al artigiano Gore Verbinski.

Ambientato negli anni 60, il film prende le mosse da eventi reali, raccolti nelle memorie di Frank Abagnale Jr. Questo singolare personaggio, trasformatosi poi in agente dell’ ufficio statunitense anti-frode, già da adolescente era in cima alla lista dei ricercati eccellenti del FBI, grazie alle sue truffe in danaro. Il fatto che i suoi crimini non abbiano mai causato danni fisici alle persone, nonché la genialità con cui ha saputo ordirli, cosa che ha agevolato il lavoro dello sceneggiatore Stephen Nathanson, spiega l’stintiva simpatia con cui lo spettatore finisce per sintonizzarsi con Frank, senza voler per questo attenuare la gravità del suo operato. Il film spiega poi molto bene quali siano stati i motivi che hanno spinto il protagonista sulla cattiva strada. Tra questi, spicca la delusione per il divorzio dei genitori, da Frank idealizzati: aspetto ben noto a Spielberg –il regista ha vissuto questa traumatica esperienza nella sua infanzia, come si vede in E.T. e Incontri ravvicinati del terzo tipo-. Forse anzi, è stata proprio questa analogia a suscitare il motivo per cui Spielberg ha diretto Prova a prendermi, film che, inizialmente, avrebbe dovuto solo produrre.

Il tentativo fallito di un’impossibile fuga di Frank, già dietro le sbarrre, precede il racconto delle difficoltà della sua cattura. Inizia allora un feed-back sugli anni pazzi di Frank, a partire dalla sua difficile adolescenza. Abbondano le scene da commedia, dove Frank sviluppa il suo talento per l’inganno. Ma emerge anche l’attrattiva che i soldi e il sesso esercitano su di lui, protagonista di una frivola vita da playboy, con cui si ritiene capace di riconciliare i genitori. Quando però si rende conto che non sono quelli che avrebbe desiderato che fossero, cerca, senza rendersene conto, figure paterne sostitutive. Tra queste, spicca proprio il suo tenace avversario e inseguitore, con cui rivive il gioco del gatto e del topo, che alle volte appare l’unica persona con cui poter essere sincero. Leonardo Di Caprio è il perfetto eterno adolescente, mentre Tom Hanks svolge con perizia un ruolo scomodo, del tipo riservato, tutto assorbito dal suo lavoro.

Pubblico: giovani-adulti. Contenuti specifici: X, D, F. Qualità tecnica: *** (MUNDO CRISTIANO)

Love actually

10/07/2004. Regista: Richard Curtis. Sceneggiatura: Richard Curtis. Interpreti: Hugh Grant, Emma Thompson, Colin Firth, Alan Rickman, Laura Linney, liam Neeson. 129 min. UK-USA. 2003. Adulti.

Esordisce alla regia lo sceneggiatore di Quattro matrimoni e un funerale, Notthing Hill, Il diario di Bridget Jones. Love Actually è una lunghissima commedia basata su equivoci, di tipo pseudo-romantico, ricca di storie di londinesi innamorati, al ritmo della musica di Craig Armstrong (Moulin Rouge). Hugh Grant è il nuovo e improbabile primo ministro, che s’innamora di una cameriera della sua residenza ufficiale. Uno scrittore (Colin Firth) scappa nella Francia meridionale, per dimenticare una delusione amorosa. Emma Thompson è una sposa e madre che sospetta di essere sul punto di perdere il marito (Alan Rickman), assediato da una specie di arpia. Keira Knightley, è la sbadata sposa novella che interpreta male l’atteggiamento del miglior amico di suo marito. Un vedovo sconsolato (Liam Neeson) cerca di entrare in relazione con un figliastro, che va a scuola, e che conosce appena. Una donna in carriera (Laura Linney) è segretamente innamorata di un collega di lavoro. Un vecchio e finito suonatore di rock (Bill Nighy) fa la sua ricomparsa per promuovere una canzone natalizia, grazie al suo instancabile manager.

L’inglese Richard Curtis (1956), formatosi ad Oxford e sceneggiatore di Mr. Bean, appare privo di finezza, buon gusto e polso narrativo quando, all’insegna del va bene tutto, spesso si lascia andare ad uno stile smaccatamente disinibito (il rapporto tra due attori di cinema porno, un’assurda trama di un ragazzo assetato di sesso, il costante turpiloquio nei dialoghi), che danneggia decisivamente l’insieme. Ne risulta un puzzle malriuscito: il gioco non vale la candela. Peccato, perché alcuni momenti risultano assai divertenti, una delle storie appare di alto livello (quella di Colin Firth) e altre due piuttosto riuscite (quelle di Thompson-Rickman e di Neeson).

Diventa patetico l’impegno profuso da alcuni sceneggiatori, registi e produttori contemporanei, per rendere sdolcinati alcuni racconti romantici, con una comicità povera, grossolana ed elementare, che ci ricoda troppo da vicino quella degli sceneggiati della tv, con generoso assortimento di erotismo incipiente (nel cinema sembra obbligatorio proseguirne gli effetti) ed un humour volgare, con pretese di riuscire sofisticato, a forza di improbabili virtuosismi.

Le limitazioni imposte dalla censura, ha recentemente affermato il regista spagnolo Berlanga, un tempo obbligavano i registi a ricercare almeno una certa finezza. In linea con questo commento, c’è veramente da chiedersi come fare per rinverdire la deliziosa comicità di film come L’orribile verità (The Awful Truth), di Leo McCarey, che tuttora stupisce per finezza e genialità. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

Pubblico: adulti. Contenuti specifici: X+, D+, F. Qualità tecnica: *** (MUNDO CRISTIANO)

The punisher

3/07/2004. Regista. Jonathan Hensleigh. Sceneggiatura: Jonathan Hensleigh, Michael France. Interpreti: Tom Jane, John Travolta, Rebecca Romijn-Stamos. 124 min. USA. 2004. Adulti.

Un detective assiste all’assassinio di tutta la sua famiglia, mentre lui stesso è dato per morto. Abbandonato dai suoi e datosi all’alcolismo, unico suo scopo sarà quello di vendicarsi in modo atroce, anche se il messaggio che lascia dice: “Non è vendetta, ma punizione”.

The punisher è un comic serio, a tinte scure, altro film firmato da Marvel, dopo Hulk, Spiderman, Dare Devil, X- Men, ecc, in attesa di vedere Fantastic Four. Il protagonista è una macchina da combattimento contro il crimine, esente da emozioni e inflessibile, quasi un robot. Con nostra sorpresa, il presunto eroe infrange tutte le caratteristiche di cui sembra dotato. La storia ci racconta di una vendetta selvaggia, senza un attimo di tregua. Girato in Florida, e costato 33 milioni di dollari, il film è puro diversivo che, oltre a non giustificare la sua lunga durata, a base di colpi ed esplosioni, risulta in capace di suscitare un serio interesse. Buon lavoro di Travolta nel ruolo del cattivo, coadiuvato da attori secondari dotati di talento, ma poco valorizzati. Fernando Gil-Delgado. ACEPRENSA.

Una bionda in carriera (legally blonde 2)


3/07/2004. Regista: Charles Herman-Wurmfeld. Sceneggiatura: Kate Kondell. Interpreti: Reese Withersponn (Elle Woods), Sally Field, Regina king, Jennifer Coolidge, Bruce McGill. 95 min. USA. 2002. Giovani-adulti

Un paio d’anni fa, La rivincita delle bionde ha raggiunto un gran successo di pubblico. In quel film, Elle Woods era riuscita a laurearsi in Giurisprudenza, dimostrandosi non solo bella, ma intelligente e, al momento giusto, capace di lavorar bene. Arriva ora sugli schermi la continuazione di quella storia, anche se, stavolta, sembra propiro che la ciambella non sia riuscita col buco. Elle Woods interrompe i preparativi di nozze, abbandona lo studio legale associato, e va a Washington, per far parte della squadra di una congressista (niente meno che Sally Field). Si tratta di dar battaglia alle potenti industrie di cosmetici che utilizzano animali per i loro esperimenti. In fondo, lotta per liberare la cagna, madre del adorato Bruiser, ridotta a cavia da laboratorio.

Una bionda in carriera utilizza il personaggio di Elle per irridere il sistema giuridico negli USA, con i suoi conciliaboli e quell’ apparente serietà. Esalta la spontaneità, il buon senso, i sentimenti e il colore, contro la rigidità, lo stereotipo e il grigiore imperante. Ma questa parodia supera i limiti del comico, scadendo nel ridicolo, nel noioso e nel politically correct. Fernando Gil-Delgado. CINEFORUM 2004.

Pubblico: giovani-adulti. Contenuti specifici: S, D. Qualità tecnica: * (CINEFORUM 2004)

Uzac

3/07/2004. Regista: Nuri Bilge Ceylan. Sceneggiatura: Nuri Bilge Ceylan. Interpreti: Muzaffer Özdemir, Mehmet Emin Toprak, Zuhal Gencer Erkaya, Nazan Kirilmis, Feridun Koc.110 min. Turchia, 2002. Giovani-adulti.

Gran Premio della Giuria al migliore attore, ex-equo coi due protagonsiti, a Cannes 2003. Appassionato ammiratore del giapponese Yasujiro Ozu -del quale esalta soprattutto lo sguardo pieno di umana compassione verso i personaggi- Bilge ha attinto anche a Tarkovski, Bresson e Antonioni. Il suo primo lungometraggio, Kasaba (Il piccolo paese) è del 1997, cui è seguito, nel 2000, Mayis Sikintisi (Nubi di maggio), premiato con 18 premi internazionali.

Mahmut è un fotografo turco che vive ad Istanbul, abituato ad una vita agiata, grazie ai suoi lavori pubblicitari per una ditta di pavimenti e ai reportage di fotografia rurale che realizza periodicamente. Solo dopo il divorzio, Mahmut vede vacillare la sua indipendenza con l’arrivo di Yusuf, un parente venuto nella capitale in cerca di lavoro. Yusuf, rustico e semplice, è un ritratto del Mahmet di 20 anni prima.

Questa storia di campagna e di città non è particolarmente originale, ma -ricca di implicazioni- riesce anche istruttiva nel mostrare la Turchia laica contemporanea, erede di Ataturk. In questo clima, Uzak si articola in un racconto dal potere di seduzione visiva fuori del comune, che traspare -intimo- ad opera di un cast molto ridotto (5 attori). Il film, realizzato in economia, risulta abbastanza abile da eludere lo scontato richiamo dell’esotico. Le qualità della fotografia, dell’allestimento e del montaggio sono a dir poco strabilianti. La magìa di gran parte del film, la si deve molto alla felice scelta degli ambienti, specialmente nelle sequenze relative al porto e al molo abbandonato.

Solo l’eccessiva lunghezza, una certa indolenza narrativa nel giungere al finale della storia, nonché qualche eccesso estetizzante di stile iraniano -di quelli fatti apposta per estasiare le giurie e far svenire gli appassionati- ci impediscono di elevare al rango di capolavoro questo film. Alberto Fijo. CINEFORUM 2004.

Pubblico: giovani-adulti. Contenuti specifici: -. Qualità tecnica: **** (CINEFORUM 2004)

La casa dei 1000 corpi

3/07/2004. Regista: Rob Zombie. Sceneggiatura: Rob Zombie. Interpreti: Sid Haig, Bill Moseley, Sheri Moon, Karen Black, Chris Hardwick. 85 min. USA. 2003. Adulti.

Durante la notte di Halloween del 1977, due coraggiose coppie di sposi attraversano il deserto e visitano il locale del Dr. Satan, leggendario antro del terrore.

Il cantante heavy-metal Rob Zombie -già leader del gruppo musicale White Zombie- esordisce da regista in questo caotico prodotto di bassa lega, che vorrebbe ispirarsi a Non aprite quella porta (The Texas Chainsaw Massacre) e ad altri celebri e sanguinari film del terrore. Piacerà ai fans di questo genere, ma la regia non oltrepassa quella di un banale videoclip. Jerónimo José Martín. CINEFORUM 2004.

Pubblico: adulti. Contenuti specifici: V+, X, D, F. Qualità tecnica: * (CINEFORUM 2004)