The village

30/10/2004. Regista: M. Nigth Shyamalan. Sceneggiatura: M. Nigth Shyamalan. Interpreti: Bryce Dallas Howard, Joaquin Phoenix, Adrien Brody, William Hurt, Sigourney Weaver, Brendan Gleeson, Cherry Jones. 108 min. USA 2004. Giovani.

“Ripetersi o non ripetersi? Questo è il dilemma!”. M. Nigth Shyamalan, regista de Il sesto senso, scrive, dirige e produce questo film, con grande chiarezza di idee: respinge al mittente le critiche che lo accusano di essere ripetitivo. Asserisce, infatti, di indugiare su di un genere molto popolare di film, quello di suspense, ma solo per affrontare questioni di rilievo, capaci di provocare lo spettatore. Inserisce nei film situazioni inattese e soprendenti, che fanno presa. Per questo, si consiglia di sperimentare la visione dei suoi film, senza troppe informazioni, limitandosi all’imprescindibile: è certo il miglior modo di fruirne.

Ci troviamo alla fine del XIX secolo. In un paesino isolato, circondato da un bosco, gli abitanti vivono in allegro cameratismo: tutti si conoscono e spesso condividono i pasti all’aperto. Sono governati da un gruppo di anziani, che risolvono i problemi della comunità. Vige l’accordo di non uscire mai dal paese, perché nel bosco abitano orribili creature, “da non nominare neppure”. Non varcare i limiti del villaggio: ecco la condizione per poter vivere in pace. In caso contrario…

Nuove sfide per Shyamalan, brillantemente superate. La principale: creare la sua prima protagonista femminile forte: la ragazza cieca, Ivy. Questo personaggio propone l’esistenza di diversi tipi di cecità; e conduce a una delicata storia d’amore che culmina nella scena del portico, girata da maestro. Ci sono anche altri amori, amori segreti non confessati. E segreti, segreti non comunicati. Perché la questione della trasparenza, mostrare le cose come sono, il parlar chiaro, è proprio il motivo conduttore del cineasta di origine hindu.

Se non bastasse, c’è la paura. Paura diversa dal terrore (anche se c’è un passaggio nel bosco, dove Ivy sembra “cappuccetto rosso”, di rara forza evocativa, capace di spaventare chiunque), e di una profondità ancora maggiore di quanto appaia sul momento. Si tratta della paura dell’oltre, un pericolo mai affrontato seriamente. Rimanere segregati nel paesino ha la sua contropartita: la rinuncia alle medicine e a tante altre cose buone, pur di evitare i mostri.

Coordinare questa storia non è stato banale. Per creare l’atmosfera adatta, la messa in scena è essenziale. Il regista gioca al meglio le sue chance: il suono e la musica, così importanti nel suo cinema; i movimenti della cinepresa, con un insolito uso dello zoom; le riprese artistiche del paese, una località invernale autentica, non ricostruita in studio… Infine, i personaggi e le trame, tutti di rilievo. Shyamalan offre un’ulteriore saggio della sua eccellente regia. Nel film ricorre ad un cast di gran classe, permettendosi di imitare l’Hitchcock di Psyco, quando fa sparire un attore nel bel mezzo della narrazione. Menzione speciale merita Bryce Dallas Howard (Ivy), figlia d’arte, che recita alla perfezione il suo ruolo. L’ha scoperta proprio Shyamalan sulla scena un’opera teatrale a Broadway. Ne è seguita l’immediata valorizzazione da parte di Lars von Trier, nel film Manderlay, in un un ruolo destinato, in origine, a Nicole Kidman.

José María Aresté. ACEPRENSA.

Se mi lasci ti cancello

30/10/2004. Regista: Michael Gondry. Sceneggiatura: Charlie Kaufman. Interpreti: Jim Carrey, Kate Winslet, Elijah Wood, Mark Ruffalo, Kirsten Dunst. 108 min. USA. 2004. Adulti.

Joel (Jim Carrey) si sveglia un bel giorno con l’irresistibile impulso di non andare al lavoro, ma di prendere il treno per Montauk. Lì conosce Clementine (Kate Winslet). Pur non essendosi mai visti prima, i momenti che passano insieme riaccendono dei ricordi, quasi avessero precedentemente vissuto insieme. Dopo circa venti minuti di film compaiono i titoli di testa, e tutto diventa caos, confusione e genialità: esiste una ditta che ha brevettato una procedura medica per cancellare i ricordi di una persona. Joel e Clementine sono coinvolti, a loro insaputa, nel progetto.

Se mi lasci ti cancello è un labirinto creato dallo sceneggiatore Charlie Kaufman (Being John Malcovitch, Adaptation) che esplora di nuovo il cervello e l’anima umana. C’è un certo fascino in una complessa e interminabile serie di incontri e disaccordi, un riassunto della vita e la storia d’amore della coppia, dove non ci sono frontiere di tempo e di spazio. Ne esce una narrazione frammentaria, ai limiti della realtà, che mantiene una strana coesione proprio grazie alla logica della storia d’amore che coinvolge lo spettatore, dando coerenza ad una dimensione inverosimile. Un film non pienamente riuscito, ma notevole e attraente come esperimento formale, pur con alcuni particolari grossolani nelle storie secondarie, nonché alcune cadute di tensione e di ritmo. Fernando Gil-Delgado. ACEPRENSA.

Shall we dance?

30/10/2004. Regista: Peter Chelsom. Sceneggiatura: Audrey Wells. Interpreti: Richard Gere, Jennifer Lopez, Susan Sarandon, Stanley Tucci, Bobby Cannavale. 106 min. USA. 2004. Giovani.

Padre di famiglia, avvocato, con due figli, il protagonista ha solo motivi per essere felice… ma non è felice. Il giorno del suo compleanno, malgrado l’ambiente festoso che invade casa sua, non può evitare un sorriso forzato. Le cose cambieranno grazie a un volto altrettanto triste: quello di una maestra di una scuola di ballo, che vede tutti i giorni dal suo vagone di metro. Un giorno scende e, senza pensarci, si iscrive a lezione di ballo. Nasconde la decisione alla famiglia e, quella che all’inizio era curiosità verso una donna attraente, si trasforma in passione per il ballo, e allegro cameratismo con alunni e maestri di quella scuola.

Irrimediabilmente romantico, costituisce il remake di un film giapponese del 1997, a firma Masayuki Suo. La presenza di un regista di personalità, Peter Chelsom, consente di evitare di imbattersi in un prodotto sdolcinato. Con forza, si mette subito in chiaro che i problemi di casa propria non si risolvono avendo un affaire con la vicina della porta accanto. Ma il movente per superare le personali insoddisfazioni, la passione per il ballo, appare troppo debole, anche se arricchito da nuove amicizie e dalla riscoperta dei valori insiti nella propria famiglia. Pienamente riuscito il cast, tanto nel trio protagonista (Gere, Lopez, Sarandon) come nei personaggi secondari (Stanley Tucci, inatteso ballerino latino; Lisa Ann Walter, ballerina di peso, Richard Jenkins, il detective). José María Aresté. ACEPRENSA.

La vita che vorrei

Regia: Giuseppe Piccioni. Sceneggiatura: Giuseppe Piccioni, Linda Ferri, Gualtiero Rosella. Protagonisti: Luigi Lo Cascio, Sandra Ceccarelli, Galatea Ranzi. Italia 2004. Durata: 125'.Genere: Drammatico. Adulti.


Il regista Luca sta preparando un melodramma in costume, nuova versione della storia di Margherita Gautier. Stefano è un attore affermato, serio e molto professionale; Laura, più intensa e passionale, è un'aspirante attrice che a trent'anni ancora non ha avuto una parte importante. Vengono messi insieme per fare un provino e Stefano, dapprima scettico, si sente incuriosito ed interessato a quella donna così diversa da lui.....

La storia si sviluppa su almeno tre piani. Il mondo del cinema, ricostruito con grande dettaglio: le lunghe ore passate con la sceneggiatura in mano a provare e riprovare la parte; le gelosie, le rivalità sul set tenute a freno da un padre-regista; i ricevimenti mondani che sono un pretesto per farsi conoscere e cercare nuove opportunità di lavoro. Poi c'è il mondo privato, passato spesso in una camera d'albergo, a volte con un amante utile per la propria carriera (lei) o semplicemente per non passare la notte da solo (lui). Infine il mondo ricostruito sul set , un ottocento dove si parla e si agisce in un modo che oggi fa sorridere: una passione amorosa che tutto travolge , fino alla perdita della dignità; un altruismo fino al sacrificio di sé. Stefano e Laura si incontrano, si conoscono mentre si spostano continuamente fra realtà e finzione e si innamorano l'uno dell'altra.

I presupposti ci sono tutti per lo sviluppo di un grande amore ma non siamo nell'ottocento e i sentimenti sono fragili, sono soffocati da mille ostacoli che non provengono più dall'esterno come nel caso della Signora delle Camelie, ma da dentro di sé. L'ambizione professionale viene posta dinanzi a tutto, manca la generosità per riuscire ad accettare il passato dell'altro, c'è troppo orgoglio per riuscire ad esser il primo a dichiararsi. Mentre le riprese del film vanno avanti e si sta consumando nella finzione la tragedia di un amore impossibile, sul piano della vita reale grandi slanci di affetto si alternano a momenti di incomprensione, senza che il loro amore trovi un saldo punto di appoggio.

Anche se Piccioni ha scelto per la sua storia un ambiente certamente difficile come quello del cinema, possiamo riconoscere nel suo racconto molte di quegli elementi che spesso, quando un uomo ed una donna si incontrano, non ci fanno parlare di amore ma più propriamente di amicizia sessuata: senso di affinità ed attrazione reciproca dove però nessuno è disposto a mettersi in gioco, a soffrire e a darsi incondizionatamente. Anche se il finale sembra adombrare una tenue speranza, il regista, presentandoci sullo sfondo un mondo ottocentesco, ha voluto esprimere, in modo quasi pudico, la sua preferenza per un diverso tipo di amore. Piccioni gestisce con grande maestria l'architettura complessa della storia, sorretto da una solida sceneggiatura e dirige con abilità i due protagonisti anche se il personaggio della Ceccarelli raggiunge una più compiuta espressività , mentre quello di Lo Cascio appare più bloccato. Franco Olearo. Per gentile concesione di FAMILYCINEMATV.

Valori/Disvalori: Paradigma di un tipo di amore moderno, incapace di superare la barriera dell' orgoglio personale, della rivalità professionale, della mancanza del coraggio per darsi totalmente, sullo sfondo di un amore vero ma ormai relegato nel passato remoto

Si suggerisce la visione a partire da: Adulti. Alcune scene di incontri sessuali occasionali. Nudità parziali.

Giudizio tecnico: ****. Eccellente sceneggiatura. Accurata regia. Intensa recitazione della Ceccarelli. Non a suo agio Lo Cascio

Se devo essere sincera

Regia: Davide Ferrario. Sceneggiatura: Luciana Littizzetto e Anna Pavignano. Interpreti:Luciana Littizzetto, Dino Abbrescia, Neri Marcorè. Durata: 105. Italia 2004. Genere:Commedia. Adolescenti.

La vita di Adelaide, insegnante di lettere al liceo, sposata con un istruttore di scuola guida e madre di una bimba di otto anni, scorre senza scosse né entusiasmi, finché l’omicidio di una collega non porta nella sua vita il commissario di polizia Gaetano. E Adelaide, che ha sempre aborrito le bugie, si lascia condurre dalle indagini in un breve e gioioso tradimento, che finirà pure per farle riconquistare le attenzioni del marito.

Davide Ferrario, regista l’anno scorso del delicato Dopo mezzanotte, si ritrova ancora una volta a filmare Torino e lo fa ancora una volta con amore, mettendosi al servizio, però, di una storia altrui, molto più rumorosa e solare di quella che l’ha preceduta, ma con in comune la centralità di un triangolo affettivo.

La sceneggiatura di Se devo essere sincera, scritta dalla stessa protagonista Luciana Littizzetto in collaborazione con Anna Pavignano, autrice del fortunato Casomai di D’Alatri, si ispira ad un romanzo giallo-rosa della scrittrice Margherita Oggero, ma si concentra molto più sugli intrecci sentimentali che sulla trama gialla, che appare, per la verità, poco più di un pretesto per concentrarsi sulle avventure di Adelaide e sulla sua scoperta dei benefici effetti delle bugie e dei tradimenti coniugali.

La brillante professoressa, infatti, si trova ben presto coinvolta, per la sua curiosità e intraprendenza, nelle indagini sulla morte di una collega appena arrivata a scuola, ma soprattutto in una schermaglia amorosa con il commissario incaricato delle indagini, un napoletano sornione e dongiovanni, che si propone da subito per un’avventura a breve termine. E Adelaide, che in vita sua non ha mai mentito, scivola a poco a poco nel mondo della bugia, finendo per far ingelosire il distratto marito (fornito a sua volta di amante esteuropea), incuriosire l’amica del cuore e far arrabbiare la saccente figlioletta.

A parte le prime difficoltà a far incastrare i vari pezzi della sua vita, infatti, Adelaide scopre ben presto che il tradimento può essere l’ingrediente giusto per far ripartire un matrimonio stanco.

Perdonandoci l’ardita analogia hegeliana, alla tesi di un matrimonio stanco, si contrappone, ma solo in apparenza, l’antitesi di un tradimento inteso soprattutto come rottura delle convenzioni, ma destinato ad essere assorbito nella sintesi della coppia nuovamente e più solidamente cementata.

Alla fine Se devo essere sincera si trasforma in un’allegra apologia del tradimento, che si rivela la terapia migliore per risvegliare gli istinti assopiti di due coniugi che, a furia di troppa verità, hanno finito per considerarsi a vicenda scontati. A farne le spese il terzo incomodo, utilizzato come il motore di un rapporto che inevitabilmente lo esclude, così alla fine, non resta nemmeno l’alone romantico del sentimento a consolare l’amante, che è ridotto ad un ricostituente emotivo o a diversivo eccitante in una vita troppo piatta e banale.

Alla fine, insomma, ci si rimette insieme, non tanto perché si è perdonato (grazie alle terapeutiche bugie il momento della verità non arriva mai), ma perché in fondo va bene così. La verità è che, nella società attuale, la fedeltà e una seria e reale permanenza di rapporto tra due persone sposate è considerata così impossibile da non poter essere neppure presa in considerazione come alternativa drammaturgica e da questo punto di vista lo scadimento verso il pessimismo rispetto al precedente script della Pavignano è piuttosto significativo.

Luciana Littizzetto, comunque, dimostra di saper recitare e non è colpa sua se di fatto il suo passato di cabarettista finisca per fa sì che il suo personaggi sia quello meno inserito nella trama del film e corra sempre il rischio di stagliarsi solitario come una gag a teatro sullo sfondo degli altri protagonisti (tutti piuttosto bravi). A dare credibilità alla normalità e all’ambiente in cui Adelaide, la sua famiglia e i suoi amici si muovono contribuisce anche la regia di Ferrario e la fotografia di Torino, capace di rendercela familiare e quotidiana come la strada dietro casa nostra, ma nello steso abile a coglierne la bellezza più intima e discreta e quelle sottili differenze di classe e di ricchezza che si giocano nell’esterno di una casa o nell’architettura di un cortile.

Il risultato è una commedia brillante (genere tra i più difficili da scrivere e in genere poco praticato in Italia), che si lascia guardare e offre parecchio divertimento, con una nota di merito anche alle musiche, azzeccatissime, piacevoli e coinvolgenti. Laura Cotta Ramosino. Per gentile concesione di FAMILYCINEMATV.

Elementi problematici per la visione: qualche scena moderatamente sensuale

Valori/Disvalori Una strana ed allegra apologia del tradimento, visto come terapia per rinsaldare l'unione matrimoniale

Si suggerisce la visione a partire da: Adolescenti. Per qualche scena moderatamente sensuale

Giudizio tecnico: ***. Il regista Ferrario (Dopo mezzanotte) ritorna a raccontarci di Torino con una commedia brillante. Tutti bravi gli attori ma la Lizzitetto non riesce ad allontanarsi dalla sua formazione cabarettistica.

Io robot

16/10/2004. Regista: Alex Proyas. Sceneggiatura: Jeff Vintar, Hillary Seitz, Akiva Goldsman. Interpreti: Will Smith, Bridget Moynahan, Alan Tudyk, James Cromwell, Bruce Greenwood. 115 min. USA 2004. Nei cinema in Italia dal 22 ottobre. Giovani.

Forse a causa dell’esasperato scientismo, i racconti futuristi del russo-americano Isaac Asimov, trasposti per cinema, sono stati pochi e hanno ottenuto scarso successo. Basti ricordare L’uomo bicentenario (1999), di Chris Columbus. Ma eccoci di fronte ad un’inversione di tendenza con Io, robot, versione assai libera della collana di racconti dallo stesso titolo, impreziositi dalla sceneggiatura originale di Jeff Vintar.

Nella Chicago del 2035 i robot realizzano con normalità molti compiti domestici, in base alle tre leggi della robotica che impediscono loro di attaccare gli umani. Ma alla vigilia del lancio massiccio di un nuovo e sofisticato robot, muore il Dr. Alfred Lanning, massimo esperto mondiale di robotica.

Tutti credono che Lanning si sia suicidato, tranne Del Spooner, testardo poliziotto di colore, che il Dr. Lanning aveva dotato di un braccio bionico, in seguito ad incidente. Spooner, che odia i robot, accusa della morte del Dr. Lanning uno dei suoi androidi, Sonny, prototipo intelligentissimo che sfugge in modo spettacolare alla caccia della polizia. Aiuterà Spooner la Dottoressa Calvin, psicologa esperta in intelligenza artificiale.

In primo luogo, bisogna elogiare l’eccellente direzione artistica di Patrick Tatopoulos e la vibrante regia dell’australiano di origine egiziana Alex Proyas (Il Corvo, Dark City), per la suggestiva messa in scena. Soprattutto, appaiono sbalorditivi gli effetti speciali, da antologia, della Digital Domain, società creata da James Cameron per Titanic. Grazie ad essi, il film offre numerose impressionanti sequenze e, in primis, un personaggio digitale memorabile, il robot Sonny. La sua gestualità e capacità drammatica -in virtù del lavoro dell’attore Alan Tudyk- si possono paragonare al magistrale Gollum de Il Signore degli anelli.

Da parte sua, Will Smith limita le abituali gags allo stretto necessario, per dar respiro all’azione e al dramma. In tal senso, il film fa passare in secondo piano la scarsa originalità del copione, grazie ad appropriate riflessioni sulle implicazioni morali dell’intelligenza artificiale, criticando l’economicismo senz’anima e la mitizzazione della scienza. Ne risulta un film interessante e inquietante, alla stregua di A. I. Intelligenza Artificiale e Minority Report, di Spielberg. Unico neo, un paio di sciocche concessioni erotiche. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.

Pubblico: Giovanni. Contenuti: V, X--, D. Qualità tecniche: *** (MUNDO CRISTIANO)

King Arthur

16/10/2004. Regista: Antoine Fuqua. Sceneggiatura: David Franzoni. Interpreti: Clive Owen, Keira Knightley, Stephen Dillane, Ioan Gruffudd, Stellan Skarsgaard, Hugh Dancy. 130 min. USA, Irlanda. 2004. Adulti.

Il regista di Training Day e L’ultima alba dirige una versione alquanto libera della saga di Re Artù, con sceneggiatura di David Franzoni (Il Gladiatore, Amistad). Al produttore, Jerry Bruckheimer (La maledizione della prima luna, Black Hawk down), è venuta l’idea di prendere un regista capace di snellire il romanticismo di cui è impregnata la nota saga, imprimendo alla storia un timbro di forte e carico realismo storico, come in The Wild Bunch (Il Mucchio selvaggio) di Sam Peckinpah, sulla scorta dei film di guerra contemporanei.

Gli storici sostengono che il racconto di re Artù sia pura leggenda, ma -certo con eccessive pretese- Fuqua, Franzoni e Bruckheimer ribattono che essa rispecchi un eroe reale, diviso tra le proprie personali ambizioni e il senso del dovere. Si tratta di Lucius Arturus Castus, generale romano nato in Britannia, appartenente alla stirpe dei Sarmati. Si tratta di fantastici cavalieri russi, reclutati da Marco Aurelio, dopo averli vinti nella battaglia di Vienna, del 175 d.C.

In Britannia spetta all’esercito di Castus tener a bada i feroci Sassoni, che premono contro il Vallo di Adriano. Duri e crudeli, i cavalieri di Castus erano odiati e temuti dai nativi Woads, comandati da un misterioso mago, Merlin, al quale si accompagna una bella e agguerrita giovane: Ginevra. Nel V secolo d.c. lo splendore di Roma inizia a svanire, l’impero crolla. Le orde barbariche attaccano le frontiere del vasto impero. In Britannia, i Sassoni si preparano a sferrare l’attacco finale da nord e da est.

Fuqua inizia con vigoria e grandiosità la storia, sulla falsariga de Il Gladiatore: nebbia, fango, eroici discorsi (un po’ retorici: fratelli, libertà, forza, onore). Il prosieguo del film mette a nudo l’insufficiente caratterizzazione dei personaggi, che senza dubbio ne è il difetto principale. Tuttavia lo spettacolo è capace anche di impennate decisamente riuscite. Colpisce il sorprendente peso attribuito alla Chiesa, nella direzione politica dell’Impero. Una fantasia del tutto in contrasto con la versione originale della saga, annovera prima Artù tra i pelagiani, per poi farlo evolvere verso lo sciamanismo quando Pelagio, che difendeva una libertà considerata pericolosa dalla gerarchia cattolica, viene eliminato dal Papa. Difficile non dedurre che questi spettacoli di massa, voluti da produttori ebrei -Bruckheimer lo è- si assomigliano l’uno l’altro nel comune intento di denigrare comunque il cattolicesimo. Conviene chiarire che il principale consulente storico della sceneggiatura di Franzoni, è tale Edwards, scrittore inglese propugnatore di cabala, marziani e storie segrete sui figli di Gesù, e altre congerie simili.

Nel campo degli attori, tutti fanno il loro dovere. Specialmente Keira Knightley, che deve interpretare una Ginevra perennemente esasperata. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

Pubblico: Adulti. Contenuti: V+, X, D, F. Qualità tecniche: ** (MUNDO CRISTIANO)

Collateral

16/10/2004. Regista: Michael Mann. Sceneggiatura: Stuart Beattie. Interpreti: Tom Cruise, Jamie Foxx, Jada Pinkett Smith, Mark Ruffalo. 120 min. USA. 2004. Giovani-Adulti.

A 61 anni, è evidente che Michael Mann appare regista di grande esperienza. L’ultimo dei mohicani, Heat-La sfida, Insider-Dietro la verità e Alì, ci confermano che, oltre a saper girare molto bene le scene di azione, Mann è capace di un vigore narrativo eccellente, anche in films non pienamente riusciti, per mancanza di ritmo.

L’idea originale dello sceneggiatore di Collateral, l’australiano Stuart Beattie (La maledizione della prima luna), non era di entrare nella mente di un killer professionista. Questa è storia assai nota, esibita troppe volte. Qui, parte da una situazione comune e quasi universale. Chi non ha fatto amicizia con un tassista? Uno spazio ridotto -l’abitacolo di una macchina- due sconosciuti, una conversazione.

Le buone storie però bisogna raccontarle bene, e questo dipende dalle opzioni scelte. Beattie dimostra ancora la sua abilità nel raccontare storie. Max (un grande Jamie Foxx) è da dodici anni tassista a Los Angeles. Fa il turno di notte perché c’è meno traffico e i clienti sono più generosi con le mance, anche perché arrivano a destinazione prima del previsto. Visto dallo specchietto, il sedile di dietro si trasforma, alle volte, in un confessionale. Vincent (Tom Cruise, solido come sempre) è un killer professionista e ha un lavoro da compiere.

Un eccellente cast si coniuga con un team tecnico di prima categoria. Ne viene fuori un film molto fluido, spesso capace di toccare livelli straordinari, abile nell’eludere con grande mestiere gli ostacoli tipici di storie centrate in ambienti limitati e ripetitivi (mi viene in mente un film molto simile, l’interessante Scene da un crimine, dell’esordiente Dominique Forma).

Mann ha posto il suo sigillo su un magnifico thriller psicologico, ambientato in una delle città più celebri del cinema, una magnetica megalopoli notturna che l’australiano Dion Beebe (Chicago, Charlotte Gray) e il canadese Paul Cameron (Il fuoco della vendetta, Fuori in 60 secondi) riproducono in modo straordinario, ricorrendo a diverse camere digitali di ultima generazione, con cui si è girato l’80% del film. La musica di Newton Howard (brillante nel The Village) non è all’altezza del superbo lavoro di montaggio e disegno di produzione. Ma insisto, quello che è davvero eccellente è proprio la sceneggiatura. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

Mucche alla riscossa

16/10/2004. Registi: Will Finn, John Sanford. Musica: Alan Menken. 76 min. USA. 2004. Tutti.

Nel West, tre mucche e un cavallo karateka provano a fermare un crudele ladro di bestiame. Questo divertente western comico-musicale cerca di riproporre i cartoni animati degli anni Cinquanta e Sessanta. Sono eccellenti l’animazione dei personaggi e la musica country di Alan Menken. Gli sfondi sono eccessivamente schematici e il copione, alle volte troppo accelerato, finisce per deformare alcuni dei numerosi personaggi. Jerónimo José Martín. MUNDO CRISTIANO.

Pubblico: Tutti. Contenuti:--. Qualità tecniche: *** (MUNDO CRISTIANO)

Hero

2/10/2004. Regista: Zhang Yimou. Sceneggiatura: Li Feng, Zhang Yimou, Wang Bin. Interpreti: Jet Li, Tony Leung Chiu-Wai, Maggie Cheung Man-Yuk, Zhang Ziyi, Chen Daoming. Donnie Yen. 99 min. China. 2003. Nei cinema in Italia dal 8 ottobre. Giovani.

Secoli fa, la Cina era divisa in sette regni rivali. L’unificazione fu compita a ferro er fuoco dal re Qin. I regni vicini utilizzarono tutti i mezzi a loro portata per ostacolarla, incluso il ricorso a assassini professionisti. Nel 1998, Cheng Kaige ha realizzato un grande film su questo stesso tema: L’imperatore e l’assassino. Adesso, il versatile Zhang Yimou (Sorgo rosso, Lanterne rosse, Vivere!, Non uno di meno, La strada verso casa) si è ispirato a questa storia per realizzare la sua wuxia (film di arti marziali), passaggio obbligato per un regista cinese.

Contrariamente a Cheng Kaige, Yimou ha deciso di evitare il realismo e ha girato una fantasia tipo The Legend of Zu. Gli assassini che minacciano l’imperatore sono grandi lottatori dotati di straordinarie facoltà che esibiscono in una serie di quadri di singolare bellezza, dove si combinano coreografia, musica, costumi e fotografía. Ma l’ostentazione di arti marziali non compromette mai il nucleo della storia, bella e semplice come un ideogramma. Senza Nome (Jet Li) è il temibile guerriero che ha sconfitto Spada Rotta (Tony Leung), Spada Volante (Maggie Cheung) e Cielo (Dinnie Yen), i tre assassini che minacciavano l’imperatore. Parte della ricompensa consiste nel raccontare la propia prodezza direttamente all’imperatore, direttamente alla sua presenza. Il racconto di Senza Nome combinerà verità e menzogna, alternerà punti di vista giocando con i colori, parlerà di amore, di devozione, di sacrificio e svelerà l’essenza dell’eroismo.

Bisogna sottolineare in questo film –il più costoso del cinema cinese- il numero e la qualità dei talenti che ha riunito. Oltre il regista e il produttore Bill Kong (La tigre e il dragone) si distinguono il direttore di fotografia Chirstopher Doyle (In the Mood for Love, di Wong Kar-Wai), Emi Wada –vincitore di un Oscar per i costumi di Ran, di Akira Kurosawa- il musico Tan Dun… Senza citare i responsabili degli scenari, le scene di azione e gli effetti visivi, per iquali si è ricorso ai cavi invece degli effetti digitali tipo Matrix. Il cast associa nei ruoli principali la coppia protagonista di In the Mood for Love (Tony Leung e Maggie Cheung), i lottatori Jet Li e Donnie yen, la giovane Zhang Ziyi (La strada verso casa) e il veterano Chen Daoming. Dal punto di vista visivo, Hero è uno dei film più belli degli ultimi anni. Ha qualche pennellata teatrale, che ricorda l’opera Turandot, girata da Yimou anni fa nella Città Proibita di Pechino. In questo senso, le inquadrature, la disposizione delle truppe, i vestiti, i colori, sono artificiosi; ma come quel grande spettacolo, sono state disegnate per mostrare la verità dell’uomo, e in nessun momento la storia o i personaggi sembrano fasulli, anche se la frontiera tra grandioso e fastoso, e personale e particolare s’incrociano spesso in entrambi i sensi. Fernando Gil Delgado. CINEFORUM 2004.

Pubblico: Giovani-Adulti. Contenuti specifici: V. Qualità tecnica: ***** (CINEFORUM 2004)

Nel mio amore

Regia: Susanna Tamaro. Sceneggiatura: Susanna Tamaro e Roberta Mazzoni. Interpreti: Licia Maglietta, Urbano Barberini. Produzione: Fulvio Lucisano per Italian International Film. Genere:Drammatico. Italia 2003. Adolescenti.

Molto interessante questo film d’esordio di Susanna Tamaro, la ben nota scrittrice che ha raggiunto un grande notorietà a partire dal suo bel romanzo di dieci anni fa, Va’ dove ti porta il cuore. Il suo primo lungometraggio, Nel mio amore, prodotto da Fulvio Lucisano, nelle sale italiane dal 23 settembre, ha per protagonista Stella (una intensa e bravissima Licia Maglietta), che ritorna dopo anni nella casa natale. Poco a poco veniamo a scoprire il suo passato: un rapporto difficile con il marito (Urbano Barberini) che esaspera il figlio fino a renderlo ribelle, e un rapporto altrettanto difficile con la figlia, hanno chiuso ormai il cuore di questa donna, che grazie all’amicizia con un personaggio un po’ misterioso –che era stato anche amico di suo figlio, morto tragicamente in un incidente- che abita fra queste montagne, ripercorre il suo passato fino a intravedere una speranza di cambiamento.

Nel mio amore è un film coraggioso, che ha l’ardire di incamminarsi su sentieri nuovi e molto alti, assai diversi da quelli di gran parte del cinema italiano. E’ anche un film girato assai bene, che mostra una connaturalità della Tamaro con il linguaggio delle immagini, i silenzi, la valorizzazione degli oggetti e dei paesaggi, che forse sorprenderanno più di uno spettatore. La scrittrice triestina, in effetti, si era diplomata in regia presso la Scuola Nazionale di Cinema, e prima di dedicarsi solo alla scrittura aveva lavorato come assistente di alcuni registi e come autrice di documentari. Le location scelte sono inusuali e bellissime: stupendi paesaggi di montagna che la regista ha trovato in Slovenia. Le immagini sono quindi molto espressive, valorizzate da una splendida fotografia di Giuseppe Lanci, uno dei maestri italiani di questa arte, che aveva lavorato anche per Tarkovskij. In effetti la Tamaro richiama il regista russo in numerose scelte stilistiche e anche nella sensibilità per un tipo di cinema che valorizza molto tanto la cura dell’immagine quanto l’interiorità dei personaggi.

I temi, come dicevamo, sono molto coraggiosi: Susanna Tamaro e la sua co-sceneggiatrice, Roberta Mazzoni (La settima stanza, Matrimoni), non hanno paura di parlare molto apertamente di fede e di amore, di colpa e di perdono, dell’inferno e del paradiso, di una vita spesa solo a cercare il benessere e il successo e dell’apertura agli altri nella condivisione e nel voler bene. Sono temi talmente alti e forti che a volte forse si avverte che non sono completamente “avvolti” nella storia, ma emergono un po’ al di fuori di essa. Il personaggio del marito, per esempio, forse è un po’ eccessivo in una sua cattiveria e grettezza non ben spiegata nel corso del film. Può darsi che la limitatezza del budget a disposizione (che peraltro lo spettatore non nota, grazie all’eccellente lavoro di messa in scena realizzato) abbia portato a dover sacrificare alcune parti della storia che forse avrebbero giustificato meglio alcuni passaggi narrativi che sullo schermo appaiono un po’ rigidi.

Ci troviamo quindi con un film che dice cose giuste e profonde, forse in un modo che da qualche spettatore sarà avvertito come un po’ spigoloso; un film che potrà piacere a molti, non solo a un pubblico adulto e sensibile, ma anche, per esempio, ad adolescenti alla ricerca di risposte chiare e radicali sul senso dell’esistenza. L’ottimo lavoro degli attori supporta bene la credibilità dei personaggi. Un esordio, quindi, davvero interessante, che fa ben sperare anche per i successivi film di questa neonata regista, così fuori dal coro di un cinema italiano che invece ben difficilmente esce dai soliti cliché. Armando Fumagalli.

Valori/Disvalori: Si parla di fede e di amore, di colpa e di perdono, dell’inferno e del paradiso, di una vita spesa solo a cercare il benessere e il successo e dell’apertura agli altri nella condivisione e nel voler bene

Si suggerisce ai genitori la visione a partire da: Adolescenti. Per alcune scene di forte tensione drammatica in famiglia; una scena lievemente sensuale.

Giudizio tecnico: **** . Regia molto curata, stupendi paesaggi montani grazie alla fotografia di Giuseppe Lanci, ottime interpretazioni degli attori. Alcuni passaggi narrativi appaiono un po' rigidi e non pienamente giustificati.

Per gentile concessione di www.familycinematv.it

Hellboy


2/10/2004. Regista: Guillermo del Toro. Sceneggiatura: Guillermo del Toro e Peter Briggs. Interpreti: Ron Perlman, Doug Jones, Selma Blair, John Hurt, Rupert Evans. 122 min. USA. 2004. Nei cinema in Italia dal 8 ottobre. Giovani.

Del Toro (Guadalajara, Messico, 1964) ha rinunciato a dirigere il terzo episodio delle avventure di Harry Potter per quest’adattamento del fumetto creato dal californiano Mike Mignola per Dark Horse nel 1994. Sembra evidente che ne sia valsa la pena. Del Toro ha una debolezza manifesta per il terrore gotico (Cronos, Mimic, Blade II), un genere nel quale si muove con scioltezza. Per questo ha un team solvente capace di offrire una fotografia, montaggio, musica e diversi elementi del disegno di produzione adeguati a sottolineare il misterio dei mondo sotterranei popolati da strane creature.

Nato dalle fiamme dell’inferno, e portato alla luce dallo stesso Rasputin con un rituale pagano favorito dai nazisti, il diavolo rosso Hellboy (eccellente Ron Pearlman) sarà allevato dal Doctor Broom (John Hurt) nell’ultrasegretissimo Centro di Difesa e Ricerche Paranormali. Teppista e attaccabrighe, infaticabile avversario dei mostri che insidiano i sottomondi tenebrosi. Il singolare eroe, che ha molto del John McClane di La giungla di cristallo, è un tipo estroso, che nasconde il sigaro fumante in presenza dal padre adottivo, si rasa tutti i giorni le corna e conversa con un ragazzino di nove anni mentre spia la sua avvenente fidanzata da un terrazzo.

Girato a Praga con 66 milioni di dollari, il film risulta gradevole e ricco di ilarità. Al disopra della parafernalia visiva, degli scenari e del ritmo delle azioni che lasciano col fiato sospeso, c’è un buon copione, un vigoroso disegno dei personaggi, senso dello humour, tenerezza e romanticismo. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

La cattiva educazione (La mala educación)


2/10/2004. Regista: Pedro Almodóvar. Sceneggiatore: Pedro Almodóvar. Interpreti: Gael García Bernal, Fele Martinez, Javier Cámara, Daniel Gimenez Cacho. 128 min. Spagna, 2004. Adulti con riserve, sconsigliato.

Ignazio ed Enrico, entrambi gay, durante la loro infanzia hanno patito molestie sessuali da Padre Manolo, il direttore della scuola cattolica dove hanno studiato. I tre personaggi tornano ad incontrarsi, tra gli anni settanta e gli ottanta, in una sordida atmosfera vendicativa, passionale e autodistruttiva.

Con il probabile scopo di reclamizzare il film, a base di polemiche, Pedro Almodóvar ha denunciato duramente nei mass media i sacerdoti pederasti e la Chiesa Cattolica in generale. Invece, nel film questi sono solo aspetti secondari, per di più avvolti in un alone di irrealtà. Difficilmente credibile, l’angosciato personaggio del sacerdote pederasta. Ancor meno, il brutale compare, un grasso prete, pronto ad uccidere a sangue freddo, nello stile di Frank Nitty. Le loro vicende si mantengono sempre all’interno di un ambiente omosessuale, a forti tinte melodrammatiche. Evade alla “legge del desiderio” solo il personaggio impersonato da Javier Cámara, il più divertente e profondo, con quello della madre e della zia del protagonista.

L’indigesto polpettone gay si traduce in scene erotiche assortite, bassamente scurrili, con improbabili messinscena: fino alla nausea. Almodovar sembra aver totalmente smarrito la freschezza di Tutto su mia madre e di Parla con lei, calcando molto le interpretazioni, in un grottesco ibrido di cinema noir, di commedia classica e del più volgare avanspettacolo. Ne ricava un film maldestro, dove rispuntano i noti difetti di Almodovar: a stento, se ne riconosce il valore. Jeronimo José Martín. ACEPRENSA.

Pubblico: Adulti, con riserve (sconsigliato). Contenuti: V, X+, D+, F+. Qualità: ** (MUNDO CRISTIANO)