Man on fire

25/09/2004. Regista: Tony Scott. Sceneggiatura: Brian Helgeland. Interpreti: Denzel Washington, Dakota Fanning, Marc Anthony, Radha Mitchell. 146 min. USA. 2004. Adulti.

Denzel Washington è Creasy, ex-membro di una unità di elite dell’esercito statunitense che, tormentato e dedito all’alcool, ottiene l’impiego di guardia del corpo di Pita, una bambina di 9 anni, figlia di un imprenditore di Città del Messico, dove proliferano i sequestri di persona. Il buon livello della prima metà del film, grazie al simpatico ed emotivo rapporto che si instaura tra la depressa e taciturna guardia del corpo e la loquace e affettuosa Pita, degenera nella seconda parte, piena di violenza demenziale, conclusa dal patetico messaggio di riproporre la vendetta fuorilegge, quale unico modo di ovviare alla corruzione della polizia.

Il copione di Brian Helgeland (Mystic River) e la regia di Tony Scott (Top Gun) sono mediocri, con un abuso di colpi ad effetto gratuiti. Inoltre, appare ingiusto e falso il ritratto, poco sfumato, della realtà quotidiana della capitale messicana. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

The bourne supremacy

25/09/2004. Regista: Paul Greengrass. Sceneggiatura: Tony Gilroy. Interpreti: Matt Damon, Franka Potente, Brian Cox, Julia Stiles, Karl Urban. 108 min. USA. 2004. Adulti.

Jason Bourne, superagente -o super assassino- della CIA, sparito dalla circolazione un paio di anni fa, vive felice a Goa. Improvvisamente, entra in profonda e angosciosa tensione: “loro” lo hanno individuato e continuano a volerlo uccidere a tutti i costi. La storia prosegue secondo lo stesso cliché: inseguimenti, azioni in parallelo…

La storia regge. In primo luogo, perché Matt Damon, senza ostentazione -date le circostanze-, ricorre a tutto il sofisticato armamentario letale fornitogli dalla CIA con rapidità ed efficacia, e poi anche perché il film non ha altra pretesa se non quella di intrattenere un paio d’ore gli spettatori. Il produttore Marshall (lo stesso della trilogia Indiana Jones) sa comunque realizzare filmi divertenti e ben rifiniti. Per questo, ricorre per lo più al collaudato cast del precedente episodio, cui già aveva arriso il successo, puntalmente confermato anche ora (168 milioni di dollari soltanto negli Stati Uniti). Ecco perché sono già iniziate le riprese del prossimo episodio: L’ultimatum Bourne. Fernando Gil-Delgado. ACEPRENSA.

Garfield

25/09/2004. Regista: Peter Hewitt. Sceneggiatura: Joel Cohen, Alec Sokolov. Interpreti: Bekin Meyer, Jennifer Love Hewitt, Stepehn Tobolowsky. 75 min. USA. 2004. Tutti.

Gli sceneggiatori di Toy Story e il regista di The Borrowers (I Rubacchiotti) hanno trasformato in lungometraggio uno dei fumetti più popolari al mondo, il cui protagonista è il gatto, grasso e viveur, chiamato Garfield. Le avventure di Garfield risalgono al 1978. Il gatto, creato da Jim Davis, è apparso sulle pagine di 2.600 giornali di 63 paesi, in 23 lingue diverse. La serie tv, vincitrice di quattro premi Emmy, è andata in onda tra il 1988 e il 1995.

Con questi precedenti non era facile intraprendere un lungometraggio, perché i fumetti propongono situazioni particolari di forte impatto allusivo, ma prive di continuità, con una componente satirica molto accentuata, spesso sottile. Il film appare riuscito, ben realizzato, secondo una storia accettabile, ricca di battute comiche e gags, che ben riassumono le peculiarità di questo indolente e imborghesito felino. Il copione (ricalca un elementare e trito viaggio di eroe) opta chiaramente per il pubblico infantile, che peraltro non è utente abituale di Garfield. La strategia di produzione -un film per la famiglia- è abile, ma problematico è prevedere se riuscirà a soddisfare gli uni (i genitori) e gli altri (i bambini). Ed è tutto da dimostrare, che il fumetto -per di più il fumetto a strisce- regga altrettanto bene in versione cinematografica. Garfield è un film simpatico, non entusiasmante. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

Catwoman

25/09/2004. Regista: Pitof. Sceneggiatura: John D. Brancato, Michael Ferris, John Rogers. Interpreti: Halle Berry, Sharon Stone, Benjamin Bratt, Lambert Wilson, Francesc Conroy. 104 min. USA. 2004. Adulti.

Una timida disegnatrice pubblicitaria è assassinata dopo aver scoperto i loschi affari di una multinazionale di cosmetici. Ma un mitico gatto egiziano trasforma la ragazza in Catwoman, l’ultimo anello di una lunga tradizione di supereroine dotate di poteri felini e forte spirito libertario. Questa donna rinnovata, adesso aggressiva e scanzonata, investigherà il caso e vendicherà la propria morte, in concomitanza di un’intensa storia d’amore con un poliziotto attraente ed affettuoso.

Dopo una comparsa da personaggio secondario in Batman di Tim Burton, ecco riapparire la donna-gatto, creazione fumettistica del 1940, ad opera di Bob Kane. Bill Finger esordisce così, da protagonista, in un film che fa acqua da ogni parte. Da un lato, il francese Pitof, formatosi nell’ambito degli effetti speciali, insiste in prolisse riprese, incorrendo nel caos narrativo già emerso in Vidocq. Inoltre, il copione offende l’intelligenza e risulta squilibrato. Ne consegue l’infelicità delle battute, la carenza di coinvolgimento emotivo nei passaggi drammatici e di tensione nelle scene d’azione. Se non bastasse, gli effetti visivi sono un disastro, specialmente i maldestri movimenti aerei di Catwoman, lontani anni luce dalle eccellenti animazioni digitali di Spider-man 2, o I, robot.

Comunque sia, il peggio del film è dato dai personaggi, tutti affetti da luoghi comuni e privi di profili drammatici, succubi di una visione edonista ed erotomane della vita. Perfino lo scontro frontale, che si pretendeva elettrizzante, tra Halle Berry e Sharon Stone, si riduce a risibili scambi di miagolii e graffiature. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.

Matrimonio in appello (Laws of attraction)


25/09/2004. Regista: Peter Howitt. Sceneggiatura: Aline Brosh McKenna, Robert Harling. Interpreti: Pierce Brosnan, Julianne Moore, Nora Dunn, Michael Sheen. 90 min. USA. 2004. Adulti.

Molto simile, per il soggetto, a Prima ti sposo, poi ti rovino (Intolerable cruelty), questa commedia romantica racconta come irrompe l’amore nella vita di due già attempati avvocati newyorkesi. Entrambi specializzati in divorzi, si conoscono da avversari in tribunale. Non c’è niente di nuovo in questo film di Howitt, veterano regista della tv inglese. La regia fluida e ben condotta pone in evidenza, in modo forse un po’ sdolcinato, la coppia protagonista. Ci sono diverse situazioni assai divertenti, con un messaggio chiaramente positivo, inclusa l’elegante intelligenza di rinunciare a riprese di sesso esplicito. Per questo, non si capisce l’inserimento di una storia (del musicista rock e della disegnatrice) che propina diversi dialoghi volgari. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

The terminal

18/09/2004. Regista: Steven Spielberg. Sceneggiatura Sacha Gervasi, Jeff Nathanson. Interpreti: Tom Hanks, Catherine Zeta-Jones, Stanley Tucci, Diego Luna, Zoe Saldana.128 min. USA. 2004. Giovani.

Viktor Navorski è in viaggio, destinazione New York, con un segreto dovere da assolvere. Il piccolo paese dell’Europa dell’Est, dove è nato e da cui è partito, è teatro di un improvviso colpo di stato. Così che si ritrova nei guai appena sbarcato all’aeroporto Kennedy: gli viene negata l’autorizzazione ad entrare negli Stati Uniti. Spielberg, sullo stile di Prova a prendermi, in una commedia in linea con i classici di F. Capra (specialmente con quel capolavoro di È arrivata la felicità-Mr Deeds Goes to Town), ci propone una trama narrativa decisamente valida, dove si avverte la mano esperta del neozelandese Andrew Nicol (Gattaca, Truman Show, Simone). La storia, ispirata ad un evento realmente accaduto in un areoporto francese, regge bene, grazie anche a momenti assai divertenti che denotano tutta la padronanza cinematografica di un vero maestro (come si evince fin dall’interrogatorio cuio è sottoposto il passeggero Hanks dall’ispettore doganale Tucci e dagli incontri casuali tra l’hostess Zeta-Jones e Navorski). Gli attori recitano alla perfezione. Straordinaria la messa in scena, all’altezza della fama di Spielberg, che ha girato con consumata abilità le riprese del film all’areoporto Mirabel di Montreal.

Il cinquantasettenne regista di E.T. torna ai temi prediletti (l’attaccamento al padre, l’insuccesso, l’importanza della famiglia, la forza dell’amore come motore vitale) dimostrando che la sua bacchetta magica è capace di domare le storie fino al coinvolgimento emotivo dello spettatore. Hanks sfrutta il suo celebre senso dello humour, che forse non necessitava il ricorso a tanti tic, come in Forrest Gump. Lo acompagnano gli straordinari Tucci e Zeta-Jones. Il film non ha prodotto particolare impressione a Venezia, dove è stata scelto per inaugurare la Mostra. Devo però allinearmi con il pubblico del Lido, al momento di dare un giudizio complessivo: malgrado i pregi suddetti, il film piace, ma non incanta: sembra mancare d’intensità. Alberto Fijo. ACEPRENSA.

Spider-man 2

18/09/2004. Regista: Sam Raimi. Sceneggiatura: Alvin Sargent. Interpreti: Tobey Maguire, Kirsten Dunst, James Franco, Alfred Molina, Rosemary Harris, J.K. Simmons. 117 min. USA. 2004. Giovani.

Due anni fa è uscito Spider-Man, la prima superproduzione che vede protagonista il popolare Uomo-Ragno, creato nel 1962 per i fumetti Marvel da Stan Lee (copione) e Steve Ditko (disegni). Il film, che ha incassato 830 milioni di dollari in tutto il mondo, ha introdotto Sam Raimi nel gotha di Hollywood, riproponendo l’attualità, nel cinema, dei supereroi tratti da fumetti. Il nuovo film ripropone lo stesso team tecnico-artistico in una nuova avventura di Spider-Man, allestita senza badare a spese, grazie ai 200 milioni di budget. Questa seconda puntata –di una serie inizialmente prevista di sette- ha già registrato alcuni record di incasso: al primo giorno di uscita, 40,5 milioni di dollari in 4.152 sale; nel solo primo fine-settimana, 180 milioni di dollari.

L’azione si svolge due anni dopo che il giovane cittadino di New York, Peter Parker, ha messo tra parentesi il suo amore per Mary Jane Watson, per dedicarsi -anima e corpo- ad essere Spider-Man. Adesso, Peter, mentre continua ad aiutare la polizia da Uomo-Ragno, lavora consegnando pizze a domicilio: deve pagarsi gli studi universitari. Come logico, la sua vita diviene ora così complessa, che finisce per aver problemi con il gestore della pizzeria, con il direttore del Daily Bugle, con sua zia May, con l’amico milionario Harry e con Mary Jane che, nel frattempo, dopo il trionfo ottenuto come attrice di teatro, si fidanza con un astronauta attraente e famoso, figlio del direttore del Daily Bugle.

La conseguente sensazione di malessere fa perdere a Peter parte dei suoi poteri, al punto da indurlo a pensare seriamente di rinunciare ad essere Spider-Man, preferendo una vita normale. Ma sul più bello, appare un nemico pericolosissimo: il Dr. Octopus, prestigioso scienziato che, dopo aver compiuto un rischioso esperimento di fusione nucleare, si è tramutato in un deleterio mostro, dotato di quattro tentacoli intelligenti. Il duello che vede protagonisti questa piovra letale e l’Uomo-Ragno, per le strade di New York, tiene con il fiato sospeso.

Il successo del primo Spider-Man è stato contrassegnato dalla divertente e spettacolare profusione di effetti digitali, alla base di convincenti interpretazioni, nonché di un copione di solida narrativa drammatica, con riusciti contrasti emotivi. In questa seconda avventura, gli effetti digitali sono ulteriormente migliorati, sia nei prodigiosi voli di Spider-Man, come negli attacchi tentacolari del Dr. Octopus. Gli attori riconfermano qui le loro doti, anche se le interpretazioni di Tobey Maguire, Kirsten Dunst e James Franco appaiono un po’ legate all’archetipo dei rispettivi personaggi. Piú sfumature emergono nei personaggi interpretati da Rosemary Harris -incantevole nei pani di zia May-, J.K. Simmons e Alfred Molina, fisicamente perfetto come Dr. Octopus, nonché altrettanto credibile nel ricrearne la patologica personalità.

Il copione risente di alcuni stilemi tipici dei fumetti, soprattutto evidenti nello schematismo narrativo e in un’eccessiva pretesa di fedeltà agli ideal-tipi dei personaggi. Questa volta, tuttavia, non solo la violenza risulta più diluita –tranne nel caso del massacro all’ospedale-, ma il dramma, lo humour e la storia amorosa si integrano molto meglio con le scene di azione. Ci sono anche alcune parti recitate in modo davvero splendido, a manifestare il lodevole sforzo realizzato da Alvin Sargent. Se però il cocktail regge alla perfezione almeno per la prima ora, finisce poi per perdersi in meandri troppo melodrammatici e discorsivi, riguadagnando equilibrio solo nel finale. Tale tensione ondivaga fa passare parzialmente in secondo piano le numerose trovate tecniche e drammatiche, senza arrivare a comprometterne l’insieme. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.

Le chiavi di casa


Regia: Gianni Amelio. Sceneggiatura: Gianni Amelio, Stefano Rulli, Sandro Petraglia. Interpreti: Kim Rossi Stuart, Charlotte Rampling, Andrea Rossi. Italia 2004. 105 m. Genere:Drammatico. Giovani.

Gianni è un giovane padre (Kim Rossi Stuart) che non ha mai voluto essere padre. La donna che amava aveva solo 19 anni quando era morta dando alla luce un bambino, Paolo, nato tetraplegico spastico. Gianni non lo ha mai voluto vedere e Paolo (Andrea Rossi) é stato allevato dalla sorella della madre. Ora il ragazzo ha 15 anni e Gianni accetta di accompagnarlo all'estero in una clinica specializzata.

Gianni guarda incuriosito una vecchia foto di suo figlio che non ha mai visto. E' alla stazione; sta per prendere il treno per Berlino per accompagnare Paolo in una clinica per bambini come lui. E' lo zio del ragazzo che gli fa vedere la foto:quello zio che fino a quel momento si è si è preso cura di Paolo e che ora, senza rancore né gelosie, invita il padre naturale ad andare alla scoperta del ragazzo che si nasconde dietro quel corpo ferito. Gianni sale in treno, raggiunge il figlio nello scompartimento: Paolo lo approccia subito con allegria, con la confidenza di una persona conosciuta da sempre. Gianni è contento della scoperta ma è impacciato, non sa fino a che punto deve aiutarlo (nel camminare, nel vestirlo, nel fare la pipì) o lasciare che orgogliosamente risolva da solo le sue difficoltà quotidiane. In ospedale, una signora (Charlotte Rampling) che da vent'anni si dedica ad accudire la figlia con la stessa infermità, se ne accorge subito: "mi sembra che lei si vergogna di suo figlio". In effetti Gianni, pur con buone intenzioni, ha appena iniziato il coinvolgimento totalizzante che comporta stare vicino a suo figlio e ai suoi misteri. Se tra loro due ci sono momenti di allegra intimità, questi sono subito seguiti da capricciose impuntature, da automatismi di difesa e se Paolo ha una sorta di serena filosofia intorno alle cose del suo piccolo mondo (ma anche per una ragazza norvegese , che ha conosciuto chattando via Internet) improvvisamente si mettere a compiere gesti di cui lui stesso non sa darsi una ragione. Gianni, dopo il soggiorno a Berlino ed un viaggio in Norvegia per fargli conoscere la sua amica di "rete", ha imparato a conoscerlo ed ora ha iniziato ad amarlo. Basta con le cliniche; vivrà a casa sua, con sua moglie e il suo piccolo figlio.

Il regista non ci regala un finale consolatorio: proprio quando Gianni ha manifestato i suoi sentimenti ed il suo impegno per il futuro, percepisce fino in fondo l'angosciosa presenza di quel lato oscuro e misterioso che vive in quell'essere così tenero e che li renderà sempre lontani e diversi, senza la consolante possibilità di ragionare, quella rassicurante prevedibilità a cui ci appoggiamo quando amiamo una persona.

Gianni Amelio, forse per evitare di cadere nel sentimentalismo, ci immerge interamente nella fenomenologia della condizione del giovane handicappato. Le inquadrature durano quanto devono durare per dar tempo a Paolo di esprimersi o forse di non esprimersi affatto, senza molto curarsi delle regole dell'armonia della narrazione e spesso della stessa capacità di attenzione dello spettatore. Il registra centra in pieno l'obiettivo di farci conoscere sia la ricchezza dell'umanità nascosta di chi si trova nella condizione di disabile, sia l'eroismo intenso ma spesso fragile degli adulti che si debbono prendere cura di loro. . Vi è però come un cielo basso che copre tutta la storia; manca, come succede invece in tutte le storie vere, il lato allegro e felice della vita, anche se potrebbe sembrare assurdo parlarne in questo caso. Manca a mio avviso, la giovinezza. LaIl mio piede sinistro –1989- di Jim Sheridan); famiglia che forse Paolo sta per raggiungere, nella parte della storia che non ci è stata raccontata. Franco Olearo. Per gentile concesione di FAMILYCINEMATV. giovinezza è quella che hanno tanti volontari che si preoccupano di queste creature più fragili a cui possono regalare un poco della loro allegra incoscienza, che spesso non hanno i genitori, troppo preoccupati o intimoriti. Manca l'allegria di una vita in famiglia, ragazzi sani disinvoltamente assieme a ragazzi che non lo sono (situazione resa molto bene nel film

Valori/Disvalori Un padre decide di amare quel figlio che non voleva conoscere. Manca la serenità della speranza.

Si suggerisce ai genitori la visione a partire da: Pre-adolescenti. Il realismo della cure a cui sono sottoposti i bambini disabili in una clinica specializzata potrebbe impressionare i più piccoli.

Giudizio tecnico *** Una regia spesso disadorna privilegia il realismo documentaristico.

(FAMILYCINEMATV)

Mare dentro

18/09/2004. Regista: Alejandro Amenábar. Sceneggiatura: Alejandro Amenábar. Interpreti: Javier Bardem, Belén Rueda, Lola Dueñas, Celso Bugallo, Mabel Rivera, Tamar Novas, Clara Segura. 125 min. Spagna. 2004. Adulti.

Dopo il successo nazionale e internazionale di Tesis, Apri gli occhi e The Others, in Mare dentro il regista spagnolo Alejandro Amenábar ricrea in chiave agiografica la fase terminale della vita del tetraplegico Ramón Sampedro, suicidatosi nel 1998, dopo aver difeso davanti ai tribunali, per diversi anni, un presunto diritto a morire. Questo film premiato con il Leone d’argento e il gran premio speciale della giuria al miglior attore alla Mostra del Cinema di Venezia, pretende enfatizzare il dibattito sull’eutanasia.

Ramón Sampedro, nato in Spagna nel 1943, in un paesino della Galizia, dopo un passato da marinaio giramondo, a 26 anni divenne tetraplegico per un incidente in spiaggia. Paralizzato dal collo in giù, curato dal fratello e dalla famiglia, Sampedro si autorecluse volontariamente nel letto di camera sua perché, a differenza degli altri tetraplegici, rifiutava l’uso della sedia a rotelle. Per altri 29 anni, è vissuto leggendo, ascoltando musica, scrivendo, parlando con molta gente, cercando di ottenere senza successo, dallo Stato, un diritto al suicidio. Infatti, considerava la sua vita indegna di essere vissuta. Negli anni Novanta, il suo caso ha attratto l’attenzione dei mezzi di comunicazione, arrivando in tribunale e suscitando un certo dibattito sociale. Nel 1996, Sampedro ha pubblicato l’autobiografia intitolata: Lettere dall’ inferno. Il 12 gennaio 1998, finì suicida, con la complicità di diversi parenti e amici, mai incriminati perchè lui stesso aveva elaborato un sofisticato piano a loro tutela.

Dopo la morte, l’erede ha cercato di tenere aperto il caso Sampedro e ha querelato lo Stato spagnolo, davanti al Tribunale di Strasburgo, per “lesione del diritto alla vita privata”. Ma Il Tribunale ha dichiarato innammisibile la querela. Successivamente, l’erede ha portato il caso davanti al Comitato dei Diritti Umani dell’ONU, che a marzo ha però confermato l’inamissibilità del ricorso.

La prima cosa che impressiona, nel film, è la notevole regia di Alejandro Amenábar. Girate in ordine cronologico, quasi tutte le interpretazioni risultano di gran valore. Forse quella di Javier Bardem (premio Coppa Volpi al miglior attore) sorprende meno di quella di Belén Rueda –magnifica nel suo complesso personaggio- o di Lola Dueñas e Mabel Rivera, che incarnano i personaggi più autentici del film.

D’altra parte, Amenábar coinvolge emotivamente lo spettatore anche grazie ad un allestimento molto curato, per lo più realista, senza rinunciare a diversi inserti onirici, alcuni davvero suggestivi. In questi e altri passaggi, la pianificazione dell’insieme e il montaggio risultano sempre di gran spessore, esaltati dalla bella fotografia di Javier Aguirresarobe e dalla coinvolgente colonna sonora, opera dello stesso Amenábar, sempre efficace, anche se talvolta troppo enfatica. Una menzione a parte merita il prezioso tema di musica celtica, ricorrente nelle fasi culminanti (c’è la collaborazione di Carlos Núñez), come pure la maestrìa di trucco di Jo Allen, capace di cambiare connotati a Javier Bardem.

Tale spettacolare dimostrazione dell’espressione audiovisiva, si fonda su una trama brillante, emotiva e al contempo perfino divertente, che descrive i rapporti familiari e di amicizia di Sampedro. Tuttavia, appare molto ideologico, talvolta anche spudoratamente sentimentale nell’apologia dell’eutanasia. Al riguardo, i passaggi più sgradevoli sono relativi alla comparsa di Sampedro davanti ai tribunali -di fronte a giudici caricati a tinte fosche-, nonché la visita a Sampedro di un gesuita, tetraplegico come lui, totalmente gratuita e inventata, sviluppata in modo così paradossale e crudele, da svelarne la settaria prospettiva anti -cattolica.

Tale deriva ideologica si vede anche negli idillici profili esistenziali dello stesso Sampedro, il cui fulgido esempio di santitá laica, si incrina in due sole manifestazioni dove prevale il cattivo umore. Anche i due rappresentanti dell’associazione pro-eutanasia DMD (Diritto a Morire con Dignità) esibiscono un equilibrio psicologico esemplare, una serenità intelligente e pure divertente. Anzi, si ergono a difensori della natalità in un’apposita scena carica di sentimentalismo, ma incoerente con l’insistenza di Sampedro a togliersi la vita.

Simili spunti sentimentali affiorano anche nelle due storie d’amore che il copione inserisce intorno a Ramón Sampedro. In una, la protagonista è Julia (Belén Rueda), l’avvocatessa che lo assiste nella lotta legale, a sua volta affetta da una malattia degenerativa. Nell’altra è Rosa (Lola Dueñas), povera ragazza di paese, maltrattata dagli uomini, che trova in Sampedro un’inattesa ancora di salvezza. Tali vicende secondarie, introdotte da Amenábar, ci impediscono di chiarire quale sia la logica di Sampedro. Infatti, nonostante le numerose ragioni per vivere, che tali intermezzi sentimentali inducono a supporre, il protagonsista insiste nel voler morire, ribadendo macchinalmente l’unico messaggio: “Non mi giudicate. Se mi volete veramente bene, rispettate la mia libertà e aiutatemi a morire”.

In realtà, il film difende un concetto di libertà inteso come autonomia personale, quasi priva di confini, morali e legali, controllata soltanto dalla soggettività assoluta della coscienza. Lo ha sintetizzato molto bene lo stesso Bardem quando ha così definito il suo film: “È la storia di una persona il cui unico Dio è la propria coscienza, che rende l’uomo più libero e più umano”. Ma non si comprende perché tale elogio della coscienza non dovrebbe riguardare, allora, anche un kamikaze o un seguace di una setta, che si suicida per ottenere un’ipotetica vita migliore nell’aldilà. Infatti, la convinzione più profonda può in tal caso essere compatibile con la mancanza di autocritica.

È chiaro che, per non turbare tale illimitata autonomia, non si riflette sulle possibili deformazioni della coscienza. Si elude anche la possibile componente patologica dell’ossessione di Ramon Sampedro di voler morire, sorvolando sul difficile problema delle ripercussioni negative del suo atteggiamento su altri tetraplegici e malati gravi. In breve, l’argomento principale consiste nel giudicare indegna la vita da tetraplegico.

Proprio sulla questione del senso dell’amore e della sofferenza, si vede in modo lampante la debolezza dell’antropologia e della morale su cui poggia la decisione di Sampedro, condivisa dal film. Così come viene descritto, il protagonista parte da un concetto di felicità materialista e individualista: quando si scontra con la menomazione fisica, è incapace di dar senso alla vita e all’amore, perché entrambi risulteranno marcati per sempre dalla sofferenza. Questa impostazione di Sampedro è smentita ogni giorno da migliaia di persone in tutto il mondo, totalmente dipendenti da altre e assai menomate fisicamente, che non hanno tuttavia perso la gioia di vivere e lottare, né la capacità di lavoro, né il senso della solidarietà, che arricchisce e perfino santifica il proprio dolore.

In definitiva, tutto questo insieme di conflitti, basati su tesi apparentemente ovvie, deformati o irrisolti, non fa che penalizzare la qualità formale e interpretativa del film, inducendo a inquisire sulla reale autenticità dei personaggi e sulla vera entità drammatica ed etica dei loro conflitti. Inoltre, fa scalpore che si parli con tale superficialità e leggerezza di “vite che non meritano di essere vissute”. Fino ad oggi soltanto certi filosofi del III Reich hanno teorizzato sulle “vite umane prive di valore vitale” (“das lebensunwerte Leben”): vittime, più tardi, degli stessi programmi nazisti di eutanasia ed eugenetica. Dimentichiamo troppo facilmente il passato. Jerónimo José Martín. ACEPRENSA.